Compay Segundo: un ricordo

La vita può anche ricominciare a novant’anni. Maximo Francisco Repilado Muñoz – in arte Compay Segundo – è stato la dimostrazione di questo teorema. E di mille altri. Perché davvero lui ha conosciuto la polvere e gli altari, gli alti più baluginanti e i bassi più grami, prendendo quel che la vita passava con un invariabile sorriso disincantato: quello di chi ha conosciuto la miseria e la gloria planetaria e sa che in fondo né l’una né l’altra contano veramente. Le leggende si forgiano nei travagli del destino. A quattordici anni incominciò la carriera suonando il clarino nella banda di Santiago. Ma ben presto passò alla chitarra, inventandone addirittura una di sette corde, perfetta per la sua musica, il son, la più genuina incarnazione sonora dell’anima della sua terra. Compone centinaia di canzoni, e nel ’42 fonda, col “Compay Primero” Lorenzo Hierrezuelo, i Los Compadres. Nella Cuba di Batista è già una stella con un gruppo tutto suo, ma l’avvento del regime castrista emargina di colpo tutti i grandi del tradizionalismo, e il buon Compay s’arrangia come può: operaio in una fabbrica di sigari, imbianchino, attore in un paio di film messicani. Senza mai perdere il buonumore. Torna alla musica negli anni Settanta, ma dovrà aspettare quasi altri trent’anni per la rivincita: rivincita: quando, nel ’97, Ry Cooder gli prospetta il progetto Buena Vista Social Club, nessuno – e tanto meno lui – immagina le proporzioni del rilancio: Grammy Awards, tournée intercontinentali, il suggello di Wim Wenders, perfino le onoreficenze di Castro. Non fu una terza vita semplicemente perché per Compay la vita era sempre quella, e bisognava prenderla come veniva. L’ho conosciuto in Aula Paolo VI, nel febbraio del 2000, al Giubileo degli ammalati. Lo si era contattato all’ultimo momento, come spesso accade in televisione quando ti si apre una falla in scaletta. Aveva accettato con l’unica condizione di poter incontrare il papa. Se c’era uno capace di cogliere le occasioni al volo, questo era Compay” Era arrivato al pelo, dieci minuti prima che iniziasse la diretta, dopo un’odissea intercontinentale durata più di ventiquattro ore. Fresco come un ragazzino, col solito sorriso storto dall’immancabile Avana, il suo Panama sbilenco, e un’allegra corte di musicisti e parenti accompagnatori. Non c’era più tempo per provare. Nell’agitazione generale, spiego: “Ci serve un brano breve, tre minuti in apertura, niente presentazione “. Dice che non c’è problema, ma che voleva dire due parole a nome del popolo cubano, e che comunque, lui, senza un goccio di rhum non poteva proprio salire sul palco. Non seppi mai se quell’improbabile richiesta sia stata esaudita o se concesse uno strappo alla regola. Fatto sta che quando lo trascinai sul palco, il sorriso era invariato, il Panama al suo posto, e che la performance durò non meno di otto minuti. Otto impeccabili minuti di pura cubanità, quel mix di allegria e tenerezza che è scolpito nella sua musica, nella sua voce come nel dna della sua gente: offerto con la nonchalance del più navigato dei barman. Solo dopo averlo riaccompagnato in camerino, mi accorsi che adesso eravamo nei guai e che la scaletta era saltata come un birillo. Mi guardò, e lasciò parlare il sorriso: fossero questi, i guai. Così sorrisi anch’io, l’abbracciai, e lo vidi cercare con gli occhi il manager: allora, questo rhum? ADDIO MR. CARTER Se n’è andato anche lui, lo stesso giorno di Compay: un altro grande vecchio ha lasciato la musica un po’ più povera. Benny Carter era una gigante del jazz, uno degli ultimi testimoni dell’era aurea. Sassofonista, clarinettista e trombettista, superbo arrangiatore anche per il cinema, aveva suonato e collaborato coi più grandi, da Fats Waller a Benny Goodman, da Duke Ellington a Miles Davis. Aveva lanciato Ella Fitzgerald e subìto le umiliazioni della segregazione razziale, e come tutti i maestri aveva trovato nella propria arte la forza e il senso stesso della vita. Senza far differenze: tra il fetore di una stamberga o i velluti dei più prestigiosi teatri del pianeta, duettando coi comprimari, i geni, e perfino le mezze calzette. f.c.

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