Come sopravvivere sul lavoro

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Sarà perché ormai conosce bene la vita o, forse, per le ridotte energie fisiche. Fatto è che la donna che siede sul trono più famoso del mondo dal 1952 ha deciso di ridursi l’orario di lavoro. A fine febbraio, Sua Maestà la regina Elisabetta ha annunciato l’intenzione di limitare gli impegni pubblici. Le sue fatiche, per così dire, inizieranno il lunedì mattina e avranno termine a mezzogiorno del giovedì. Lascerà Buckingam Palace per l’amato castello di Windsor o qualche residenza in campagna. Chissà che l’imminente scoccare degli 80 anni (21 aprile) non le abbiano fatto maturare la convinzione che il lavoro, pur necessario e importante, non sia tutto nella vita. Nemmeno in quella di una regnante. D’altra parte, senza bisogno di sangue blu nel sistema circolatorio, ci sono legioni di persone che la pensano allo stesso modo. E molto prima degli 80 anni. Tanti, in quest’inizio di primavera, stanno già cimentandosi in un sport nazionale: calcolare quanti giorni li separano dalle sospirate ferie. Non lavorate mai!, ammoniva il filosofo situazionista Guy Debord, critico radicale della vita quotidiana. Un sogno meraviglioso, che molti uomini e donne del nostro tempo vorrebbero realizzare. Non tanto per vivere di rendita in qualche bucolico atollo del Pacifico, ma per sfuggire alla logorante vita sul lavoro, quando la propria professione non appaga. Purtroppo, la realtà odierna è cruda. Il 2005 si è chiuso per l’Italia con una crescita economica uguale a zero, come confermato ufficialmente dall’Istat. L’emergenza lavoro, con licenziamenti e cassa integrazione, ha toccato per la prima volta persino il Veneto. Sappiamo bene che la sicurezza lavorativa garantita da una laurea non esiste più, che le pensioni sono a rischio e che la carriera è, in troppi casi, solo un miraggio. Se poi diamo ascolto agli esperti meno ottimisti, veniamo informati che le future generazioni – per entrare nel mondo del lavoro – dovranno do- tarsi di un bagaglio di titoli di studio sempre crescente per occupare posti meno qualificati e lavorare in modo spesso meno gratificante. Ma, com’è facile costatare in tanti amici, non brillano d’entusiasmo nemmeno quelli che un lavoro ce l’hanno. Sono costretti, non raramente, a subire dirigenti mediocri, quadri poco brillanti, capetti tiranneggianti, responsabili ottusi, colleghi logorroici o lavativi, mentre è d’obbligo partecipare a riunioni inconcludenti e a seminari inutili. La situazione accomuna tante nazioni. Anche tra i nostri cugini d’Oltralpe, ad esempio, ci sono responsabili di medio livello, i cosiddetti quadri, che, secondo una recente ricerca dell’Istituto francese d’opinione pubblica, sono attivamente disimpegnati sul lavoro in misura del 17 per cento contro un esiguo 3 per cento che si ammazza di lavoro. E gli altri? Be’, sono quelli che l’impresa, l’istituto, il dipartimento, il ministero si sforzano di motivare attraverso seminari rivitalizzanti. Il personale è il nostro asso nella manica. Da noi potrete vivere esperienze stimolanti e tentare grandi sfide, gestire in autonomia molteplici progetti innovativi. Nel mondo del lavoro vige una lingua totalmente altra rispetto al verbo quotidiano. È quella capace di sbriciolare le rocciose intenzioni dei più motivati e mettere in ridicolo l’eroe del lavoro che alberga in ognuno di noi. Ne siamo talmente abituati, che quasi non ci accorgiamo più degli obbrobri linguistici che ci attraversano. Inizializzare, invece del più ordinario e corretto cominciare. Posizionare, al posto di mettere. Soluzionare per risolvere. Eppure, questa lingua – illustra l’economista francese Corinne Maier in Buongiorno pigrizia (Bompiani) – esercita su di noi una forte attrazione e pretende di sostituirsi al nostro pensiero, condannandoci a un meccanismo senza vie di fuga. L’idioma delle circolari interne, delle note aziendali, delle riunioni di settore manifesta, infatti, la visione di un potere impersonale che non cerca di convincere, né di dimostrare o sedurre, quanto piuttosto di affrancare dalle difficoltà reali, escludendo qualsiasi giudizio di valore. È una lingua di nessuno, ma estremamente ammaliante. E soggiogata dall’inglese. Appena una parola fa furore negli Stati Uniti attraversa l’Atlantico e plana sulla bocca d’imprenditori e docenti, manager e consulenti. Fanno davvero sorridere. Guai, perciò, a dire resoconto – puzza di anacronismo intellettuale -, ma reporting. Sentite coma fa evoluti? Perciò, evitiamo la perniciosa sintesi e affidiamoci alla chiarezza di un abstract. Aborriamo il ritorno o l’eco per ossequiare il più convincente feedback. Denigriamo la ricaduta o gli effetti per affidarci all’evidenza del follw-up. E potreste continuare voi stessi, tanto è capillare l’invasione. Del resto, se non siete un pezzo d’antiquariato, anche la natia lingua va aggiornata: si dice ad e non più amministratore delegato, dg al posto di direttore generale, cda per consiglio d’amministrazione. Questo è il tempo delle sigle o, più pomposamente, degli acronimi. Ma di abusi soffre anche il vocabolario. Due termini su tutti impazzano nell’orario di lavoro: strategia e sinergie. Usateli con circospezione. E mai in presenza di bambini. Discriminazioni nei confronti delle donne, pressioni psicologiche su taluni dipendenti, giovani non tutelati, diritti fondamentali dimenticati… Ci sarebbe da scappare. Se solo non ci fosse la necessità di lavorare. Proiettatevi positivamente nel futuro, viene chiesto ai dipendenti con involontaria ironia quando né l’azienda, né l’intera nazione conoscono la direzione di marcia. Siate artefici del vostro cambiamento, viene consigliato. E, in effetti, è vero, ma bisognerebbe individuare anche chi ci ha scaricati per strada. Parole d’ordine per le diverse situazioni. Ce ne sono in quantità.Ma servono? I luoghi di lavoro, le imprese – ha sostenuto Corinne Maier -, in modo analogo a tutta la nostra società, sono minacciati da una decomposizione incipiente. La domanda essenziale che oggi si pone a livello comunitario, sia aziendale che nazionale, è: Come si fa a vivere insieme? . Quesito d’importanza capitale, attorno al quale si concentrano le riflessioni di filosofi del calibro di Jurgen Habermas e John Rawls. L’intento è non solo quello di evitare alla convivenza quotidiana i tratti di una bolgia dantesca. Si mira, ovviamente, più in alto. Ovvero, provare a rendere armoniosa, e magari arricchente e stimolante, una coabitazione tra diversità. Ognuno è portatore sano di una sensibilità, una formazione e un percorso esistenziale degni del massimo rispetto. A parte pochi artigiani, artisti e scrittori che creano in totale solitudine, tutti gli altri si guadagnano il pane a contatto di gomito con gli altri. Lavorare insieme perciò richiede di saper convivere, un’arte che poggia sulla buona educazione. Che altro non è che una gentilezza d’animo (faticosamente conquistata) nei confronti degli altri per rendersi gradevoli ai vicini e creare piacevoli e proficui rapporti con tanti. Sul lavoro trascorriamo le ore cruciali della giornata e gli anni migliori della vita. Vale, perciò, la pena entrarvi ed uscirvi con un pizzico di classe. Rispetto per tutti, dal capo al fattorino – consiglia Roberta Mascheroni, esperta di galateo -. Gentili con tutti, anche con i più scorbutici. Collaborativi sempre, ma non servili. Senza dimenticare riservatezza e contegno. Questo non vuol dire che siano di troppo generosità e altruismo, pazienza e lungimiranza. Tutt’altro. Servono, e come. Insieme alla capacità di saper sorridere di sé e degli altri. Ma devono poggiare su cortesia e giustizia nei rapporti e senso di responsabilità nel lavoro. Sono la premessa per avviare tutte le conquiste in tema di trasparenza, legalità e tutela di tutti, dentro e fuori l’ambiente di lavoro. AVANTI E SENZA MUSO DURO Tutto comincia all’arrivo. Magari in ascensore. Se vi trovate qualcuno, salutate. Se siete un uomo con un cappello in testa, toglietevelo. Se salite insieme ad altri, informatevi sulla destinazione di tutti. Al momento di scendere passeranno prima le signore, poi le persone più anziane o di maggiore riguardo. Stare in ascensore con un sorriso e non a muso duro allenta la tensione , suggerisce Lina Sotis, in Il nuovo bon ton (Rizzoli). Non usate il telefono con l’aria e la mentalità del bambino che può farsi impunemente una scorpacciata di marmellata. Le telefonate sul lavoro dovranno essere brevi ed essenziali. Se state rispondendo al telefono dell’ufficio, lasciate perdere il cellulare. Evitate quella frase fatale: Scusa, sono sull’altro telefono. Fatevi forza e rispondete a uno o all’altro. Non scavalcare mai il diretto superiore. Seguire la via gerarchica è un modo sicuro per non farsi dei nemici a vita. Non scaricate le responsabilità di un lavoro malfatto su un collega. Lui non tarderà a riservarvi lo stesso trattamento e una piccola disattenzione diventerà un affare di stato. Se il capo ha concesso un appuntamento a un dipendente, non interrompa la conversazione per rispondere al telefono. Avverta la segretaria di chiamarlo solo pere questioni importanti. Ascolti chi ha davanti e non dia l’impressione di essere interessato solo a concludere l’udienza. A ciascuno piace avere successo, ma il carrierista si distingue perché lo rivela in modo troppo trasparente e ossessivo. Se il gioco si svela troppo facilmente, il danno per il carrierista è quasi irreparabile.

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