Come sono belli questi Macchiaioli

Al Chiostro del Bramante a Roma 110 opere provenienti da collezioni private, spesso invisibili al grande pubblico. Una rassegna assai raffinata. Da non perdere
I pittori Macchiaioli in mostra a Roma

Non saranno geniali come gli impressionisti e non saranno star mondiali come Manet, Monet, Pissarro e amici, perché da noi, per lungo tempo, la pittura dell’Ottocento italiano ha goduto fama di essere, diciamo così, qualcosa di “minore”.

 

Ma è proprio vero? Basta passeggiare tra le minime e medie tele che affollano le sale del Chiostro in nove sezioni – corrispondenti ad altrettanti collezionisti (Cristiano Banti, Diego Martelli, Mario Borgiotti, Edoardo Bruno, Enrico Checcucci, Mario Galli, Rinaldo Carnielo e Gustavo Sforni)  – e ci si accorge che nei confronti dei “pittori di macchia” toscani c’è più di un pregiudizio da rivedere. E che ciò sia in corso, lo dimostra la serie pressoché ininterrotta di rassegne che li riguardano.

 

Certo, questa è la pittura della luce. In continuità, occorre sottolinearlo, con la tradizione pittorica toscana che, tra Firenze e Siena, è sempre dominata dalla luce “intellettuale” come principio di ricerca e di significato, ma che nei Macchiaioli si arricchisce di uno sguardo sulla natura, le cose, le persone, nuovo ed originale. Si tratta infatti di un occhio che osserva la vita nel suo svolgersi e divenire, così com’è, senza riferimenti agli eroismi antichi. Potremmo dire che, sotto certi aspetti, quest’arte si avvicina al mondo poetico pascoliano, del Pascoli delle Myricae e dei Canti di Castelvecchio, o a certe atmosfere di Gozzano, senza dimenticare tuttavia la realtà popolare, la fatica lavorativa, l’eroismo risorgimentale della Nuova Italia in nascita.

 

La linea poetica  appare quella della freschezza. Le Cucitrici di camicie rosse del 1863 di Odoardo Borrani sono un inno al colore pieno di luminosità: un interno tutto al femminile, prezioso, zeppo di oggetti, eppure pervaso da un’aria quasi sacrale, quella del Risorgimento in atto. In un certo senso è più alto delle tele di Giovanni Fattori con i suoi soldati a piedi o a cavallo lungo la spiaggia, a dire l’eroicità del quotidiano. Però Fattori è capace di volare: la poesia di una tela semplicissima come la Raccolta di fieno in Maremma (1867), dove i buoi hanno una solennità arcaica (e si comprende allora il celebre sonetto del Carducci al “bove”) sotto un cielo azzurro, o Ciociara (Ritratto di Amalia Nollemberg) (1881 circa) – raramente visto –, bellezza arcana sul poggiolo, o gli squarci di natura del Cancello verde (una tavola di 10 x 12 cm!) parlano di poesia minimale come di epica maremmana.

 

Il gusto per la vita serena, spicciola si direbbe, della provincia è tipico di un grande come Silvestro Lega, poeta delle abitudini, delle cose semplici, ma non minimaliste. Il paesaggio con contadini (1886) è bello come la contemplazione tranquilla della natura; il Paesaggio romagnolo sfuma tra balze e case, mentre All’ombra della villa ci riporta nell’estate a guardare, come le due donne sedute, la vastità di campi, colline, paesi con un sentimento dell’infinito che non è certo quello leopardiano, ma quello più “normale” di chi vive in mezzo al paesaggio e lo guarda con naturalezza, come accade in Un’antica via a Settignano. Non sarà poesia “di altissima quiete”, ma il canto della natura Lega lo fa sentire comunque.

 

E fra i tanti piccoli-grandi poeti della macchia non si può dimenticare la visione di Telemaco Signorini: l’Uliveta a Settignano è un tripudio primaverile di luce che non ha nulla da invidiare a un Manet e l’olio su cartone Limite sull’Arno (1890) è così candido, respira nuvole e vento e specchi d’acqua con tale freschezza che è certo sullo steso piano o superiore a un Pissarro. Basti osservare la religiosità del lavoro delle due donne Sulla terrazza a Riomaggiore (1894) per averne una prova ulteriore.

 

Forse il punto più alto, o uno dei maggiori, della rassegna sta infatti nelle tela di Signorini Il Ponte Vecchio a Firenze (1878). Il brulicare di una umanità varia di cui pare quasi di sentire i vari rumori – grida, passi, ferraglie – è reso da una pennellata “macchiata” che rende vivo tutto un mondo. D’accordo, non sono le realtà dell’alta borghesia di un De Nittis o Boldini, oppure le donne in rosso di uno Zandomeneghi. Qui c’è un’altra cosa. C’è la poesia della società, degli uomini e delle donne di ogni giorno che passano e vivono. Il pennello di un artista-poeta ne coglie, anche se per poco, l’anima intera, di tutti e la riconduce a unità con la sua tavolozza. Davvero questa non è una mostra da perdere.

 

Fino al 4 settembre (catalogo Skira)

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