Come sguardi di mucca da un prato

Tre anni fa mi trovavo sul monte Spinale, in quel di Campiglio, a duemila metri. C’erano mucche al pascolo d’alta quota, e io mi avvicinai ad una di esse e le carezzai il muso. Per risposta mi leccò la mano lasciandomela verde. Ne ho parlato in una poesia intitolata Ai miei contemporanei, che non solo raramente accarezzano le mucche, ma sembrano preferirle solo in scatola. Dico questo per chiedere preventivamente scusa alle mucche che citerò in comparazione con esseri umani, che però nel paragone ci sfigurano. Due anni fa mi trovavo in ospedale per un intervento abbastanza importante, necessario; accanto a me un uomo gravemente ammalato di cancro, un ristoratore ancora giovane dai modi decorosi e gentili. Cercavo di aiutarlo nelle sue crisi, chiamavo gli infermieri, lo accompagnavo al bagno. Di fronte a noi un uomo molto anziano, provato da precedenti interventi che l’avevano privato di una gamba, attorniato da molti parenti a turno in visita. Portarono anche, nel reparto femminile, un’anziana donna appena operata e in gravi condizioni. Una sera l’uomo anziano entrò improvvisamente in una crisi cardiaca irreversibile, vi sprofondò. Corse di infermieri, medici, defibrillatore, parenti fuori testa che minacciavano di uccidere gli infermieri (chissà perché). Niente. Dalla sera, al mattino successivo il residuo respiro del vecchio, monitorato acusticamente, punteggiò il vuoto notturno con il suo plin… plin dolorosamente limpido. Naturalmente non dormivamo, aspettavamo in quella veglia non volontaria eppure in qualche modo non solo necessitata, ma necessaria. Assisteva il vecchio, nelle più fonde ore notturne, fatti uscire i parenti, una giovane dottoressa che, oltre a quella gavetta, di praticante, non poteva fare nulla. Poco prima dell’alba i plin… plin si diradarono, sempre più, fino a farsi inverosimilmente rari. L’uomo moriva, e io mi feci il segno della croce. La dottoressa mi guardò con una sorta di stupore ottuso, come ti guarda una mucca dal prato in cui sta pascolando. Probabilmente si chiedeva sia perché lo facessi, sia perché lo facessi non essendo un parente di lui. Due sere dopo morì la donna operata, che avevo sentito lamentarsi. La misero nella bara e ad un certo punto fecero passare la bara in corridoio. Io stavo sulla porta della nostra stanza, altri degenti s’erano affacciati dalle loro e facevano ala.Mi feci il segno della croce, e tutti mi guardarono come ti guarda una mucca da un prato. Né la dottoressa due sere prima, né essi allora, accennarono ad alcun segno o preghiera, pur frequentando, alcuni e alcune di loro, la messa domenicale. Allora mi venne, devo confessarlo, accanto alla fermissima volontà di segnarmi, una grande tristezza e anche un’ira profonda – 1’Apocalisse parla, e non per scherzare, dell’ira dell’Agnello -; un’ira, priva di ostilità nei confronti di chiunque; nutrivo ben più e ben altro che sterile ostilità, sentivo il suono inudibile, ma più possente di ogni nostro suono o silenzio, delle realtà ultime, che sono la verità. E mi dicevo: il mondo di oggi gioca, avanza teorie, prassi, filosofie, ideologie, desideri, e tutto importante, impellente, decisivo, subito. Nell’asilo infantile delle altissime soggettività, come dicono sociologi involontariamente umoristi, manca la pietra angolare della gratitudine. Senza di essa tutto l’edificio, qualunque sia, viene su storto, pencolante, pericolante, e fa strepito solo col suo continuo, e continuamente negato, crollo. La gratitudine è un’ipotesi? un’opinione? un concetto? È gratitudine e basta. A otto anni e mezzo un bambino, non ammaestrato né indottrinato, mi disse: Dio ci ha creato per salvarci dal nulla: nel quale, a quanto pare, molti tentano di rituffarsi il più insensatamente possibile.

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