Come preghiera in gennaio

Resterà sempre un mistero. Si può provare a ripercorrere i passi che conducono al gesto estremo. Ma sulla soglia del suicidio ci fermiamo, chinando il capo in religioso silenzio. Se qualcuno deve parlare, parli l’autore del Mestiere di vivere: Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, infermità, nulla. Giuseppe Molinari, con il suo libro O Tu, abbi pietà, edito da Ancora, ci mette sulle spalle un bagaglio di fonti e critiche letterarie, ed invita ad incamminarci con Cesare Pavese alla ricerca faticosa di un senso per la vita e l’arte. I temi forti dell’opera pavesiana: la solitudine, l’amicizia, il dolore, il mito, la morte, l’amore, sono largamente documentati e affrontati da Molinari con sincero rispetto di fronte al drammatico percorso eticoreligioso di Pavese. Due binomi, che chiamerei bipoli, vengono particolarmente in luce in questo saggio: solitudine- amicizia, amore-morte. Benché convinto dell’insufficienza di ogni commercio umano, ho una sete terribile di amicizia e di comunione scriveva Pavese a Monferini nel 1938; e nelle sue lettere alla Pivano del 1947: Cara Fern, la solitudine che lei sente si cura in un solo modo, andando verso la gente e donando invece di ricevere… Per vivere una vita piena e ricca bisogna andare verso gli altri, bisogna umiliarsi e servire. È questo è tutto… E se le consiglio di donarsi e non di chiedere, è perché la migliore prova che valiamo qualcosa sta nell’aver fatto qualcosa per gli altri che lei ignora per matta bestialità. Si capisce che è così, a occhio e croce, gli altri non esistono nemmeno; ma bisogna donarsi appunto perché questo è l’unico modo di farli esistere, e allora non si è più soli, allora si vale quel tanto appunto che si è donato. L’assenza di una dimensione profonda di reciprocità nell’amicizia, così come nell’amore e nella letteratura gioca un ruolo decisivo nella vita e nell’opera di Pavese. Ed è importante rileggere da questa prospettiva le pagine raccolte da Molinari. Come la bellissima poesia: Vale la pena essere solo, per essere sempre più solo?/ Solamente girarle, le piazze e le strade/ Sono vuote. Bisogna fermare una donna/ E parlarle e deciderla a vivere insieme./ Altrimenti uno parla da solo (…)/ Se fossero in due,/ anche andando per strada, la casa sarebbe dove c’è quella donna e / varrebbe la pena./ (…) Non è giusto restare sulla piazza deserta./ Ci sarà certamente quella donna per strada/ Che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa. Ed alcuni brani del Mestiere di vivere: Tentazione dello scrittore – aver scritto qualcosa che ti lasci come un fucile sparato, ancora scosso e riarso, vuotato di tutto te stesso, dove non solo ha scaricato tutto quello che sai di te stesso, ma quello che sospetti e supponi, e i sussulti, i fantasmi, l’inconscio – averlo fatto a lungo con lunga fatica e tensione, con cautela di giorni e tremori e repentine scoperte e fallimenti e irrigidirsi di tutta la vita su quel punto – accorgersi che tutto quello è come nulla se un segno umano, una parola, una presenza non lo accoglie, lo scalda – e morir di freddo – parlare al deserto – essere solo notte e giorno come un morto (27 giugno 1946). Pavese intuisce e cerca nella poesia un cammino salvifico: C’è nell’altissima coscienza della poesia chiarificatrice ed ordinatrice che illumina il mondo del caos, la grandezza dell’uomo che tenta in ogni modo di ristabilire il circolo con gli altri, di fare della sua solitudine non il mezzo per smarrirsi nella selva dei miti, ma la possibilità di portare alla luce una ricchezza intatta d’umanità di cui è partecipe non solo l’artista, ma ognuno di noi. Ma vive il dramma di un’esperienza artistica effimera: Adesso il rovello è che tutto ciò finirà. Prima anelavi di averlo, adesso temi di perderlo. Hai anche ottenuto il dono della fecondità. Sei signore di te, del tuo destino. Sei celebre come chi non cerca d’esserlo. Eppure tutto ciò finirà. Questa tua profonda gioia, quest’ardente sazietà è fatta di cose che non hai calcolato. Ti è data. Chi, chi, chi ringraziare? Chi bestemmiare il giorno che tutto svanirà? (20 novembre 1949). Dramma che si consumerà in una decisione irrevocabile: Non scriverò più scrive il 18 agosto del 1950 nel Mestiere di vivere, e riscrive il 25 agosto a Lajolo, due giorni prima della sua morte. Sempre del 18 agosto del 1950 è la sentenza che dà il titolo al libro di Molinari: Scrivo: o Tu abbi pietà. E poi?. E poi resterà un mistero. Per Molinari un mistero di speranza. A conclusione del suo libro scrive: Ma perché non sperare che almeno nell’ultimo istante della sua vita egli abbia fatto l’esperienza della non-verità anche della sua posizione stoica?. Dopo aver letto O Tu, abbi pietà, mi tornano in mente le parole di una canzone di Fabrizio de Andrè, Preghiera in gennaio: Signori benpensanti/ spero non vi dispiaccia/ se in cielo, in mezzo ai Santi/ Dio, fra le sue braccia/ soffocherà il singhiozzo/ di quelle labbra smorte/ che all’odio e all’ignoranza/ preferirono la morte. E scopro nella stessa collana Maestri di frontiera, in cui è stato pubblicato il libro di Molinari, un libro di Paolo Ghezzi, intitolato Il Vangelo secondo De Andrè. Decido di leggerlo.

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