Come in un “Reality”
È ben misera la realtà quotidiana rispetto a quella falsa e indorata presentata dalla televisione del “Grande fratello”. Ma per il pescivendolo napoletano Luciano, con moglie e tre figli a carico, è il sogno della vita. Illusione dorata come l’ampia e bellissima veduta aerea di un cocchio regale per due sposi felici con cui si apre a sorpresa il film di Garrone, vincitore al festival di Cannes 2012.
Memore di Pasolini e Fellini, forse inconsciamente, imposta questa commedia nera e amarissima nei Quartieri spagnoli, in un palazzo sbrecciato dove vive una umanità surreale, colta con l’occhio grottesco che rende la miseria priva della dignità e quindi con una implicita denuncia sociale. Nel clan familiare di Luciano, il coro delle donne – sa tanto di tragedia anche se meno incupita – non manca di buon senso e di affetto, in particolar la moglie Maria, voce rara della ragione e del buon senso presso il marito preso dal demone di un possibile successo, sedotto dall’illusione, col rischio dello sfascio psicofisico suo e del “coro”.
Garrone rivisita ancora Napoli, che diventa luogo metaforico di ogni sottosviluppo del mondo, terra di dolore senza lacrime e riso. Il ghigno tra l’infantile e l’esterrefatto dell’ingenuo Luciano – sembra Totò giovane – domina la storia, esile in sè, e qua e là con un ritmo calante, attraversata dalla corsa a un sogno impossibile di felicità. Non per nulla il film termina con il fantastico – per lui – mondo del "Grande fratello", in cui Luciano sogna di essere finalmente entrato.
Pur non essendo il capolavoro conclamato e con brani a corrente alternata, il film evoca con una musica triste alla Nino Rota, e la fotografia da presepe napoletano nostalgico forse di un Dio, l’impossibile-possibile voglia di riscatto di “un povero cristiano”.
Regia di Matteo Garrone, con Aniello Arena, Loredana Simioli, Nando Paone