Come il seme, l’amore porta frutto a suo tempo
Il regno di Dio è il cuore del messaggio di Gesù, di cui il Vangelo di Marco vuole dare la buona notizia. Qui viene annunciato attraverso una breve parabola, con l’immagine del seme che una volta gettato nella terra sprigiona la sua forza vitale e porta frutto.
Ma cosa è il regno di Dio per noi, oggi? Cosa ha in comune con la nostra storia, personale e collettiva, costantemente sospesa tra aspettative e delusioni? Se esso è già stato seminato, perché non ne vediamo i frutti di pace, di sicurezza, di felicità?
«Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce».
Questa Parola ci comunica la fiducia totale di Gesù stesso nel disegno che Dio ha sull’umanità: «[…] Per Gesù che è venuto sulla terra, per la sua vittoria, questo regno è già presente nel mondo, ed il suo compimento, che metterà fine alla storia, è già assicurato. La Chiesa è la comunità di coloro che credono in questo regno, ed è il suo inizio»[1].
A tutti quelli che la accolgono, affida il compito di preparare il terreno per accogliere il dono di Dio e custodire la speranza nel suo amore.
«[…] Non c’è infatti nessuno sforzo umano, nessun tentativo ascetico, nessuno studio o ricerca intellettuale, che ti possano far entrare nel regno di Dio. È Dio stesso che ti viene incontro, che si rivela con la sua luce o ti tocca con la sua grazia. E non c’è nessun merito che tu possa vantare o su cui tu ti possa appoggiare per aver diritto ad un tale dono di Dio. Il regno ti viene offerto gratuitamente»[2].
«Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce».
Gettare il seme: non trattenerlo per sé, ma seminarlo con larghezza e fiducia. «Di notte o di giorno»: il regno cresce silenziosamente, anche nel buio delle nostre notti. Possiamo anche chiedere ogni giorno: «Venga il tuo regno».
Il seme non richiede un lavoro continuo, di controllo, da parte del contadino, quanto piuttosto la capacità di attendere, con pazienza, che la natura faccia il suo corso.
Questa Parola di vita ci apre alla fiducia nella forza dell’amore, che porta frutto a suo tempo. Ci insegna l’arte di accompagnare con pazienza ciò che può crescere da solo, senza l’ansia dei risultati; ci rende liberi di accogliere l’altro nel momento presente, valorizzando le sue potenzialità nel rispetto dei suoi tempi.
«[…] Un mese prima del matrimonio, nostro figlio ci telefona allarmato per dirci che la sua ragazza ha ripreso a fare uso di droga. Chiede consiglio su cosa fare. Non è facile rispondere. Potremmo approfittare della situazione per convincerlo a lasciarla, ma non ci sembra la strada giusta. Così gli suggeriamo di guardare bene nel suo cuore […] Segue un lungo silenzio, poi: “Credo che posso amare un po’ di più”. Dopo il matrimonio riescono a trovare un ottimo centro di recupero con supporto ambulatoriale esterno. Trascorrono 14 lunghi mesi, nei quali lei riesce a mantenere l’impegno “niente più droghe”. È una strada lunga per tutti, ma l’amore evangelico che cerchiamo di avere tra noi due ‒ anche tra le lacrime ‒ ci dà la forza di amare nostro figlio in questa delicata situazione. Un amore che forse aiuta anche lui a capire come amare sua moglie»[3].
[1] C. Lubich Parola di Vita agosto 1983, in eadem, Parole di Vita, a cura di Fabio Ciardi, (Opere di Chiara Lubich 5), Città Nuova, Roma 2017, p. 268.
[2] C. Lubich Parola di Vita ottobre 1979, in eadem, Parole di Vita, a cura di Fabio Ciardi, (Opere di Chiara Lubich 5), Città Nuova, Roma 2017, p. 152.
[3] S. Pellegrini, G. Salerno, M. Caporale (a cura di), Famiglie in azione. Un mosaico di vita, Città Nuova, Roma 2022, p. 74.
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