Come il buon samaritano
Nel dopoguerra l’Italia intera visse un grande slancio di operosità e di rinnovamento, in ogni settore della vita sociale. L’apertura alle novità e la moltiplicata mobilità delle persone rappresentò anche per la comunità nata attorno alla “casetta” una sfida formidabile e una grande opportunità. Quanto era nato a Trento e fino a quel momento confinato e protetto nel terz’ordine francescano, ruppe gli argini, si propagò e si rivelò ben accolto dappertutto, a Milano come a Firenze, a Torino, a Siracusa, a Sassari. Nacquero comunità in tante città e focolarine e focolarini furono chiamati qua e là a raccontare le loro scoperte, premessa di nuovi sviluppi.
Nel 1948 Chiara si stabilì a Roma per meglio seguire lo sviluppo di quanto stava germogliando […]. La crescita rappresenta sempre un momento di crisi. Così fu per Duccia che sperimentò un profondo smarrimento. Il suo rapporto con Chiara era stato talmente intimo e frequente che la lontananza le apparve un assurdo: che fare? Partire lei pure da Trento? Diventare focolarina per continuare a esser vicina a Chiara? Non si dette pace e affrontò un viaggio a Roma col solo scopo di aver consiglio, di parlarne con Chiara in tutta franchezza.
Io non l’avevo seguita in focolare, non sentivo mia la vocazione della focolarina, ma ora che Chiara era lontana ne sentivo forte la nostalgia. Decido di andare a Roma per chiederle consiglio. Se mi avesse detto di entrare in focolare ero pronta, libera. Mentre ascolta la mia domanda, me lo vedo ancora il suo dito che si muove in segno di diniego: no. «No, la tua vocazione non è d’essere focolarina; la tua vocazione è quella del buon samaritano». Avevo compreso: avrei dovuto vivere e irradiare il Vangelo prima di tutto in seno alla mia famiglia, poi nell’ambito del mio lavoro, quindi nel centro sociale in cui vivevo, soprattutto mettendo in pratica le opere di misericordia.
La mattina seguente mi reco alla Messa con Chiara e le focolarine. Quando viene letto il Vangelo ci guardiamo tutte in faccia con meraviglia: si leggeva quel giorno la parabola del buon samaritano. Era la conferma.
Con questa pace in cuore, in una nuova intimità con Chiara, anche se ora lontana, Duccia ritornò a Trento.
È interessante la figura scelta da Chiara per far comprendere a Duccia la sua speciale vocazione. La parabola del buon samaritano è una delle più note di tutto il Vangelo. Gesù la propone dopo esser stato interrogato, insidiosamente, da un dottore della Legge: «E chi è mio prossimo?» (Lc 10, 29). […]
Il paradosso del modello scelto da Gesù per spiegare la sua prossimità stava nel fatto che agli occhi dei “benpensanti” di allora i samaritani erano dei “senza dio”, esclusi dall’elezione di Israele; Gesù stesso patì quell’ostilità tanto che venne accusato dai giudei di essere posseduto da un diavolo e di essere un samaritano (cf. Gv 8, 48). L’amore è spiegato dai fatti e il samaritano diventa l’immagine eloquente di chi pratica fino in fondo – «quello che spenderai in più te lo darò al mio ritorno» – la prossimità con chiunque. La vive senza ostentazione, con immediatezza e semplicità. Se Dio arrivasse a chiedergli: «Avevo fame e mi hai dato da mangiare», certo risponderebbe ignaro: «Quando mai Signore ti ho dato da mangiare?». Fraternità e umanità arrivano a coincidere.
L’espressione “samaritani” è ormai parte del lessico comune ed è diventata sinonimo dell’universalismo dell’amore, del bene che si esprime anche oltre la cerchia degli affetti e delle appartenenze, senza confini etnici o politici. Buon samaritano: non servivano tante spiegazioni. Duccia comprese all’istante e trovò il suo modello, cominciando a casa sua.
Vivere e irradiare il Vangelo prima di tutto in seno alla mia famiglia, poi nell’ambito del mio lavoro: non mancava a Duccia il coraggio di lasciare tutto per Dio, e lo dimostrerà poco appresso. Ma questa disposizione doveva portare frutti in prima battuta proprio fra coloro – i parenti e i colleghi – da cui altri erano chiamati a essere staccati.