Come ho vissuto il giubileo dei carcerati

Un cappellano, un diacono e una missionaria raccontano come hanno vissuto il pellegrinaggio a Roma insieme ad alcuni detenuti, e l’incontro con papa Francesco
carcerati

In occasione del giubileo dei carcerati, celebrato a Roma agli inizi di novembre, padre Enrico Schirru, cappellano da 25 anni, in servizio al carcere di S. Cataldo (PA), si è recato con 4 reclusi in Vaticano, dal Santo Padre. «La prima sensazione è stata da brividi – racconta –, perché in San Pietro, dinanzi all’altare, c’era la statua della “Madonna della Mercede”, la fondatrice del mio ordine! La seconda sorpresa è stato assistere alla confessione di tutti i miei “parrocchiani”, in genere ritrosi in carcere per paura delle micro-spie o perché si vergognano. Eppure vogliono cambiar vita! Uno dei 4 ragazzi che era con me, in carcere si è diplomato e poi laureato in Giurisprudenza e dopo 24 anni di reclusione, in visita a Roma, m’è parso come un bambino che apre gli occhi per la prima volta!».

 

Per frà Schirru, Bergoglio ha fatto centro perché «la funzione della pena per un carcerato non può essere solo punitiva, deve essere anche rieducativa. Gesù, in croce, non ha forse detto al Signore: “Padre perdona loro, perché non sanno quel che fanno”? Ciò vale per ogni carcerato: la loro volontà viene viziata dalla cultura, dall’ambiente, da una certa predisposizione al male, dall’estrema povertà che riguarda molti di loro. Come devono sfamare i figli, se non c’è lavoro? La Chiesa aiuta tanto ma lo Stato dovrebbe aiutarli di più!».

 

Frà Schirru conclude: «Io stesso, poi, è come se stessi scontando un grave reato, perché da 25 anni sono nel mondo delle carceri! Sono compagno di viaggio dei fratelli detenuti, divenendo per molti anche il miglior amico. Se Gesù ha perdonato l’adultera e le ha detto “va e non peccare più”, chi sono infatti io, o chi siamo tutti noi, per condannarli come peccatori? Dobbiamo semmai condannare il peccato. Chi ha peccato, fino all’ultimo istante della sua vita deve avere la possibilità di redimersi. Il primo santo che salì in cielo con Gesù non fu forse un ladrone?».

 

Leonardo Rossi (classe 1945) è invece un marito, papà di 3 ragazzi e nonno, ma la sua più grande vocazione l’ha trovata nel divenire un diacono permanente all’interno della grande famiglia della Chiesa. Lo è della diocesi di Conversano-Monopoli, in Puglia. Collabora da 20 anni con il Cappellano del carcere di Turi (BA) aiutandolo per la liturgia domenicale e la preparazione ai sacramenti dei fratelli ristretti.

 

«Nel mio ministero cerco di portare affetto e parole di speranza. Perché come ha detto papa Francesco “nessuno può toglier loro la speranza del perdono”. Certo, hanno sbagliato e stanno pagando il loro debito alla società, ma hanno anche loro diritto di rispetto. Per esempio, pochi immaginerebbero – ci spiega – che i detenuti hanno celebrato il “Giubileo dei carcerati” dentro le loro mura, nei giorni in cui il Santo Padre lo celebrava a Roma. Grazie anche alla compagnia di una quindicina di ragazzi dai 20 ai 30 anni della Pastorale Giovanile della Diocesi, che hanno dato loro serenità e dialogo. Sabato 5 novembre è intervenuto anche il nostro Vescovo, che col Cappellano e 5 sacerdoti ha celebrato la Santa Messa. Nell’omelia ha detto belle parole di speranza, che i fratelli carcerati hanno accolto con entusiasmo. Alla fine un detenuto ha ringraziato il Vescovo del suo messaggio di vicinanza chiedendo a tutti una preghiera costante per loro e per le loro famiglie».

 

Packi Girolamo, fra le ragazze che hanno aderito alla missione, aggiunge: «C’ero anch’io per il Giubileo dentro al Carcere di Turi. Non abbiamo badato al motivo della missione ma all’obiettivo: dar luce ai loro cuori. Abbiamo parlato di come eravamo, di come siamo oggi e di come vorremmo tutti essere domani. Si è riflettuto sulla differenza di essere o apparire, con discorsi incentrati sulla voglia di riscattarsi, di cambiare. Abbiamo notato che la scoperta di valori essenziali, quali la famiglia, gli affetti e l’essere perdonati, può spingere i detenuti a dare il meglio di sé per un futuro migliore. Il percorso affrontato ha cercato di trasformare il loro negativo in speranza. Anche noi giovani missionari abbiamo lasciato le paure e i pregiudizi fuori le mura: ascoltato i loro discorsi, abbiamo risposto con quello che i nostri cammini di fede ci hanno insegnato. Siamo stati come un raggio di sole, motivo di gratitudine. Hanno compreso, rendendoci felici, che aprendo il cuore potranno anche loro superare gli ostacoli che hanno interrotto la loro vita. E, allora, sì che la luce sarà maestosa».

 

 

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