Comè giovane Aida
Dimenticare marce, balletti, cavalli areniani che tanto piacciono ai pubblici estivi. Perché l’opera verdiana, anche se omaggia il gusto pompieristico e coloniale dell’epoca – fu scritta per inaugurare al Cairo l’apertura del canale di Suez nel 1871 – è il raggiungimento completo della maturità dell’autore. Aida è storia di amore impossibile, selvaggio e vero, delicato e tremendo. Storia di giovani. È anche storia di conflitti politici, di religione al servizio del potere. Ma è soprattutto vicenda dove amore, odio, gelosia e gloria si mescolano, rivaleggiano.
Verdi non indietreggia di fronte a nessun sentimento umano. E con chiarezza adamantina dipinge la furia paterna di Amonasro, la bieca cecità del clero, l’eroismo candido e inutile di Radames, la bellezza esotica di Aida colorata di nostalgia e l’implacabile gelosia, foriera di morte, di Amneris. Con una felicità melodica davvero straordinaria, un senso del teatro (la scena del giudizio di Radames) ricco di colpi di scena, un fare grandioso nella parte “trionfale”, mai banale, Verdi delinea un affresco che però fa da sfondo al triangolo amoroso ma non lo prevarica, come invece succede in molte esecuzioni.
Aida è lirica, intima. Struggente nei notturni estivi dove si ode il canto dei grilli (padani), come le nenie arabescate dei flauti in un Egitto emiliano che si fa romanticissimo dolore dell’amore, dramma di patria e, come sempre in Verdi, pianto. Sino alla trasfigurazione finale, Addio valle di pianti, dove i due giovani innamorati sepolti nella tomba si schiudono all’eternità. Qui finalmente l’amore sarà possibile e la società con le sue crudeltà lontana.
Un’orchestra raffinatissima cesella sentimenti, esplode in ruggiti terribili, si accalora in bordate degli archi gravi e degli ottoni, e si rarefa in vibrati dei violini e melopee dei legni, sempre sostenendo, commentando, accompagnando le voci.
L’edizione alla Scala di Milano – in scena fino al 10 marzo – omaggia l’allestimento di Franco Zeffirelli, così sontuoso, luminoso, colorato, come certo sarebbe piaciuto a Verdi. Masse disciplinate, balletto – la “coppia di selvaggi” (Sabrina Brazzo, Gabriele Corrado) – vibrante, regia calibratissima nelle mosse e nei gesti, nelle luci calde: quanto di più romanticamente ottocentesco è possibile oggi rivisitare. Dirige il giovane israeliano Omer Meir Wellber, già assistente di Baremboim, con cura esemplare: tempi giusti, capacità di far emergere i singoli strumenti, delicatezza dei violini, fragore degli ottoni.
Talora l’orchestra è parsa non assecondare troppo il gesto sicuro, fluente di un direttore che ha il senso del canto, come si è visto nel rapporto diretto con il palcoscenico. Qui, Ambrogio Maestri è un baritono tonante, Marco Spotti un re convincente e l’Amneris di Marianne Cornetti fa bene la gelosa. Quanto al Radames di Jorge de León, in gran voce, fatica a smussare l’impeto, mentre l’Aida di Liudmila Monastirska ha timbro solare, bello, tecnica buona, sfumature sentite.
Coro e orchestra partecipano, ma ci sarebbe da aspettarsi di più. Siamo sempre alla Scala, no?