Come gestire un milione di profughi siriani in Giordania

Dall'inizio del conflitto siriano si sono riversati nel Paese governato dal re Abd Allah circa un milione e 300 mila sfollati; il numero è destinato ad aumentare in virtù di un flusso umano che non si arresta anche in queste ore. Ne parliamo con Wael Sulemain, direttore di Caritas Giordania
Siriani

Con gli avvenimenti degli ultimi due anni legati al conflitto siriano e con il conseguente flusso migratorio verso i Paesi confinanti, è venuto in luce il grande lavoro e l’impegno della Caritas Giordania. Nata nel 1967 durante la guerra fra Israele e Palestina, la Caritas Giordania ha cercato di rispondere in questi quasi cinquant’anni ai bisogni che si sono venuti a creare nel Paese, spesso a causa dei conflitti in quelli confinanti. Dopo i profughi palestinesi del 1967, è stata la volta, soprattutto a partire dal 1982, di quelli libanesi, per la guerra che ha insanguinato per anni quella parte del Medio Oriente. Dal 1991, poi, l’impegno umanitario dell’organizzazione cattolica si è rivolto alle vittime della guerra del Golfo e alle migliaia e migliaia di profughi in fuga dall’Iraq. Dal novembre 2011 l’emergenza Siria ha assunto la priorità assoluta anche se la Caritas prosegue con altri progetti.

Abbiamo rivolto alcune domande a Wael Suleiman che lavora presso l’organizzazione umanitaria da quattordici anni e da otto ne è il direttore. Sposato con quattro figli, è impegnato attivamente fin dai tempi della gioventù nel Movimento dei Focolari

Come si struttura la Caritas Giordania in questo momento?
«Siamo un'organizzazione umanitaria regolarmente registrata presso il governo giordano e, al contempo, operante in stretto rapporto con la Conferenza episcopale, che raduna vescovi di diversi riti (latino, melchita e maronita). Operiamo a livello di parrocchie, nelle città, ma soprattutto nei villaggi, grazie all’azione di 250 impiegati e un migliaio di volontari. Attualmente siamo la maggiore organizzazione umanitaria del Paese».

Il mondo in questi giorni è con il fiato sospeso per quanto succede da due anni in Siria e per quanto potrebbe accadere nelle prossime settimane. Quali sono le dimensioni dell’emergenza Siria in Giordania?
«In due anni sono entrati in Giordania un milione e 300 mila profughi dalla Siria e continuano ad entrare con flusso costante, soprattutto negli ultimi giorni, con il pericolo dell’attacco da parte dell’Occidente. Questo flusso migratorio ha creato un grosso problema economico in un Paese come il nostro che ha sei milioni di abitanti. La Giordania è un Paese povero di risorse. Di fatto, il turismo rappresenta la maggiore fonte di entrate e la situazione attuale ha creato una certa crisi del settore. Inoltre, c’è grande scarsità d’acqua e la poca che abbiamo dobbiamo ora dividerla con un milione e 300 mila persone in più».

Dove e come opera la Caritas in questa situazione?
«Ci occupiamo direttamente di circa 130 mila di questi profughi provvedendo con cibo, abitazioni, possibilità di studio per i bambini, assistenza sanitaria. Tutto questo sia nella capitale Amman che nei villaggi. Non operiamo, invece, nei quattro campi profughi sotto la gestione delle Nazioni Unite, che ospitano circa 150 mila persone. Abbiamo deciso di non impegnarci in questo settore per una questione di diritti umani. Faccio un esempio molto concreto: il campo di Zattari, non lontano da Amman, si trova in una zona desertica, caldissima in estate e fredda in inverno. I profughi sono esposti a questi estremi climatici, che rendono la loro vita molto difficile, quasi impossibile. Come Caritas, invece, abbiamo deciso di intervenire con le persone che si trovano a reinventare la loro vita quotidiana all’interno di un Paese che non è il loro».

L’integrazione rappresenta un grosso problema?
«Già da vari anni esistono processi di integrazione, direi quasi naturali, fra i due popoli. Il maggior fattore è determinato dai matrimoni misti. Ma ci sono anche dei trascorsi storici importanti. Per esempio, il 50 per cento delle persone impiegate presso il mercato principale della capitale sono siriani o giordani di origine siriana. Si tratta di un fenomeno che ha avuto origine circa un secolo e mezzo fa, quando commercianti provenienti dalla Siria hanno cominciato a portare i loro prodotti (articoli di vestiario, artigianato, spezie e frutta-verdura) nel nostro Paese per venderli. Questi processi in corso da molto tempo hanno senza dubbio aiutato a limitare potenziali tensioni. Un secondo aspetto che ha contribuito a limitare al minimo problemi di integrazione è stato l’atteggiamento della monarchia. Il re ha chiesto di aprire le frontiere, ma anche le scuole e di assicurare assistenza sanitaria.

«C’è, inoltre, un accordo fra i due Paesi che permette di trovare un impiego rispettivamente nell’uno o nell’altro a cittadini siriani e giordani. Questo ha permesso a molti siriani di trovare lavoro qui in Giordania. Tuttavia, anche se il permesso di soggiorno e quello di lavoro non sono richiesti, non c’è un futuro per un così alto numero di siriani nel nostro Paese. Molti sono qui, sperando che questa nazione sia un punto di transito per proseguire verso Australia, Usa o Canada. A fronte di questa tendenza all’emigrazione, noi, come Caritas Giordania, siamo impegnati in un'opera che permetta di guardare ad un futuro qui, da dove sarà più semplice tornare in Siria, una volta che il conflitto sarà terminato. Non è facile. Oltre a problematiche locali, ci troviamo di fronte a iniziative di organizzazioni occidentali di diverso tipo, che hanno preso contatto con i cristiani per facilitare la loro partenza verso l'Europa. Il punto, sia per noi come Caritas che per la Conferenza episcopale, è di lavorare affinché i cristiani possano restare in questa regione».

Allora il vosto impegno non è limitato a un intervento umanitario?
«Assolutamente no. Grazie a un programma definito da Caritas International, denominato Program for peace building, siamo molto impegnati a costruire ponti fra le diverse comunità, sia religiose che sociali: cristiani e musulmani, giordani e siriani. Si tratta di un programma che si ispira alla dottrina sociale della Chiesa e permette di guardare al futuro e non solo ai bisogni, sia pure fondamentali e improrogabili, del presente. Infatti, l’oggi è rappresentato dall’assicurare alimentazione, scolarità e assistenza sanitaria, il domani significa imparare a lavorare insieme. Questa metodologia ha favorito il formarsi di un gruppo di giordani, musulmani e cristiani che lavorano insieme per l’emergenza-Siria. Da una parte, i ponti vengono distrutti e dall’altra cerchiamo di costruirne di nuovi e duraturi».

Lei è un cristiano impegnato in un movimento ecclesiale come il Movimento dei Focolari. Esiste un impegno specifico dei membri del movimento?
«Fra i 250 impiegati e i mille volontari della Caritas Giordania una ventina appartengono al Movimento dei Focolari e molti ne condividono lo spirito di comunione. È un modo per operare e animare le strutture esistenti in aiuto umanitario e spirituale ai profughi e alla costruzione dei ponti fra popoli, culture e religioni».

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