Come fermare l’aggressore?

L’Italia invierà armi all’esercito curdo per fermare l’avanzata dell’Isil, ma il nostro Paese è già tra i primi fornitori di sistemi bellici in Medio Oriente. Con quale strategia? E chi ha armato finora le truppe del Califfato? Un dibattito aperto sulle scelte coerenti nella “responsabilità di proteggere” chi è aggredito
Profughi Iraq

Abbandonata ogni tentazione di giustificare ogni intervento armato con la categoria ormai improponibile della guerra giusta, resta l’urgenza di non restare indifferenti di fronte a crimini odiosi e, quindi, di fermare l’aggressore. Su questo difficile scoglio si è acceso il dibattito nell’Italia agostana davanti all’intenzione risoluta della maggioranza di governo, e non solo, di inviare armi all’esercito curdo per sostenere lo scontro in atto contro le temibili armate dello Stato isla­mico dell’Iraq e del Levante (Isil). Scontato l’esito positivo del voto delle commissioni parlamentari convocate  in pieno agosto.  Come afferma Paolo Messa, direttore del quotidiano web centrista Formiche.net, schierato da sempre per l’intervento militare, si tratta di un’occasione «per rilanciare il ruolo italiano nella Ue e nella Nato in un rapporto di amicizia franca e solida con gli Stati Uniti. È il giorno giusto per ribadire l’importanza della sicurezza nazionale ed internazionale del nostro Paese e confermare l’interesse nazionale verso il comparto dell’industria aerospaziale che, con Finmeccanica ed i distretti regionali animati da numerose e eccellenti pmi, rappresenta anche un volano fondamentale per la crescita». Così anche il notiziario dell’autorevole pensatoio (think tank) dell’Istituto Affari internazionali è convinto che «rafforzare militarmente i peshmerga del Governo regionale curdo dell'Iraq (Krg) per fermare la barbarie dell'Isis, ora IS (Islamic State), è giusto e necessario». In gioco, infatti, è il futuro stesso della Difesa, oggetto di un “libro bianco” che definirà finalità e obiettivi entro l’anno come ha promesso il ministro Roberta Pinotti. Di opposto convincimento Tommaso Di Francesco che su il Manifesto del 19 agosto invita a riconoscere come l’Isil sia nato in Siria come «effetto col­la­te­rale del soste­gno “uma­ni­ta­rio” in armi e con­si­glieri mili­tari, come già pre­ce­den­te­mente in Libia, della coa­li­zione degli “Amici della Siria”, una acco­lita di part­ner che vanno dagli Usa all’Arabia sau­dita, dalla Gran Bre­ta­gna alla Tur­chia, dall’Italia al Qatar» e che pertanto se si vuole fermare l’aggressore, il presidente Obama dovrebbe rompere « i rap­porti econo­mici che legano gli Stati uniti alle petro­mo­nar­chie arabe, le stesse che sosten­gono l’Isil con finan­zia­menti e armi sofi­sti­cate».

Chiama in causa il principio della “responsabilità di proteggere” da parte dell’Onu, Francesco Vignarca portavoce di Rete disarmo, con forze di interposizione di pronto intervento osservando, con riferimento all’Ue, che  «Se 28 eserciti nazionali non sono in grado di fornire unità di pronto intervento per proteggere delle popolazioni inermi che rischiano di essere sterminate c’è da chiedersi quale ne sia l’utilità: delegare l’intervento militare a milizie composte da gruppi che, per quanto integrati in eserciti regolari perseguono anche proprie finalità politiche, può essere rischioso e controproducente». Ancora più esplicito don Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi,secondo il quale  «chi sostiene l’invio di armi è  più interessato ai ritorni commerciali che non alle vittime del conflitto» ricordando che in un’audizione alla Camera dei Deputati a Roma, il 19 gennaio 2011, «il vescovo ausiliare di Baghdad aveva lanciato un appello già allora con toni disperati, con una richiesta specifica: non inviate armi. Sono passati diversi anni, non vogliamo che quell’appello continui ad essere inascoltato». Resta il fatto che, a prescindere da questa fornitura bellica di emergenza, con esemplari confiscati addirittura nel ‘94 e depositate in Sardegna, come fa notare Giorgio Beretta dell’Osservatorio Opal di Brescia,«le forniture di sistemi militari italiani sono sempre più indirizzate verso le zone di forte tensione del Medio Oriente e del Nord Africa». Una questione che per essere seriamente affrontata dalle commissioni del Parlamento, ha bisogno del serio impegno di realtà mosse da quella scelta realistica per la pace che non si può delegare solo al papa.

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