Come Ercole finì sulla Cattedra di San Pietro
Da oltre 400 anni nell’abside della Basilica Vaticana, dietro il baldacchino del Bernini oggi sfavillante di restauri, gli sguardi sono immancabilmente attirati da un grande trono in bronzo dorato sostenuto dalle statue giganti di quattro Dottori della Chiesa. Simbolo del primato di Pietro, esso non è altro che un enorme reliquiario contenente un piccolo e più antico trono ligneo, da secoli ritenuto il seggio episcopale del principe degli apostoli.
Ignota ai più o dimenticata (l’ultima estrazione risale a cinquant’anni fa), questa veneranda reliquia per volontà di papa Francesco rimarrà esposta al pubblico e alla venerazione dei fedeli presso l’altare della Confessione fino all’8 dicembre. Non solo per consentire i restauri dell’abside in vista del prossimo Giubileo e, con l’occasione, sottoporre il prezioso seggio a indagini accurate per valutare il suo stato di conservazione, ma per celebrarlo come Cattedra dell’Amore.
Il buon Pastore, infatti, che è Cristo e ha dato la vita per le sue pecore, solo in forza dell’amore richiesto a Pietro lo ha investito del compito di pascere le sue pecore, rendendolo di fatto suo vicario in terra.
Soffermiamoci ora su questo trono, da molti ritenuto quello sul quale il re dei Franchi Carlo il Calvo venne incoronato imperatore dal papa Giovanni VIII nel Natale dell’875. Esso risale dunque al IX secolo, in epoca carolingia, ma lo stile della decorazione costituita, sul fronte sottostante la seduta, da diciotto placchette in avorio rappresentanti le dodici fatiche di Ercole e le sei costellazioni, che altri studiosi fanno risalire al periodo tra il III e il IV secolo d. C., ha fatto ipotizzare che essa facesse parte di un più antico e sontuoso trono, forse appartenente alla Domus Faustae, il palazzo che Costantino donò a papa Milziade nel 313 insieme al diritto di usare le insegne e tutti gli altri attributi del potere imperiale.
A questo punto viene spontanea la domanda: come mai Ercole è finito sulla cattedra di San Pietro? Non c’è dubbio che tra i personaggi della mitologia classica nessuno sia più popolare del figlio di Zeus e Alcmena, l’Eracle dei greci derivato a sua volta dal Melqart fenicio.
Divino e umano al tempo stesso, bello e virile, impegna la sua forza smisurata nel difendere i deboli e gli oppressi, nel punire l’ingiustizia e la violenza e nel compiere imprese utili agli uomini, essendo pertanto gratificato, fra gli altri titoli, con quello di “Soter”, salvatore.
Se però nelle celebri “fatiche” trionfa delle forze della natura e delle potenze malefiche, egli appare anche nella sua vulnerabilità: ricercatore tormentato di una irraggiungibile felicità, vittima della facilità all’ira e di una follia causa di lutti e sofferenze, e infine avviato ad un tragico destino.
Caratteristico dell’iconografia imperiale, il tema delle fatiche di Ercole, in particolare, conosce una notevole fioritura ai tempi di Massimiano e Costantino. Tra le tante interpretazioni allegoriche di un mito che anzi, con l’avvento del cristianesimo, subisce la più straordinaria delle metamorfosi: quella che vede Ercole figura di Cristo che lotta contro l’impero del Maligno e muore soffrendo per poi essere accolto tra gli altri dèi dell’Olimpo: è il motivo per cui ritroviamo l’eroe nerboruto con la sua clava nei dipinti delle catacombe e nella successiva arte paleocristiana. Non stupisce, quindi, ritrovarlo perfino sulla cosiddetta cattedra di Pietro.
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