Come è difficile difendere il lavoro

 Mentre si sta giocando, in piena crisi economica, la partita sulla riforma del diritto del lavoro può essere utile partire da alcune storie. Come quella di Giuliano Neri, per anni delegato sindacale in una grande azienda metalmeccanica
lavoro
 Si parla molto di articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che permette di reintegrare nel posto di lavoro il dipendente licenziato senza una giusta causa. Una norma che vige solo nelle aziende con più di 15 dipendenti, ma considerata da alcuni come un esempio di civiltà da estendere e non ridurre, e da altri come un limite insopportabile per le imprese che verrebbero frenate dal fare assunzioni. Secondo gli ultimi dati dell’Osce, però, l’Italia non risulta tra i primi posti nella rigidità del posto di lavoro.

 

L’uscita dal lavoro è praticata nei fatti tra messa in mobilità ed esternalizzazioni. Cominciamo su www.cittanuova.it, senza voler generalizzare, a raccontare le storie di uomini e donne che in questi ultimi anni hanno vissuto e vivono sulla loro pelle l’uscita dal lavoro, propria o di altri: sindacalisti, imprenditori, semplici lavoratori. È importante in questi frangenti mettersi all’ascolto delle ragioni degli uni e degli altri. Cominciamo con Giuliano Neri, un delegato sindacale presso la sede italiana di una multinazionale statunitense.    
 
Cosa è accaduto nel mondo del lavoro in questi anni? 
«Il mio contributo non può che essere la mia esperienza che, per certi versi, può essere datata rispetto all’oggi del lavoro e del sindacato, in
particolare del mio sindacato, la Fim Cisl, ma sento la responsabilità di doverla passare, perché è importante capire bene da “dove veniamo” per sapere “dove stiamo andando”».
 
Come va letta, secondo lei, la crisi attuale?
«Una cosa che mi sembra chiara, non perché sia più intelligente di altri, ma perché ho avuto un osservatorio privilegiato in un certo momento storico, è l’entità e la portata di ciò che è stata chiamata la deriva finanziaria del mondo produttivo e industriale. Parlando anche con colleghi sindacalisti non mi pare che la percezione dell’entità del fenomeno sia la stessa».
 
Ma è qualcosa che inizia da lontano…
«Già. Avendo lavorato e fatto sindacato all’interno di una multinazionale americana, che aveva la peculiarità di essere capillarmente diffusa su tutto il territorio nazionale, e quindi dovendo il sindacato, giocoforza, riunirsi in un coordinamento nazionale per trattare con la direzione centrale italiana, posso affermare che già all’inizio degli anni Ottanta l’head office americano era impegnato a diversificare gli investimenti, spostandoli dalla ricerca (avevamo un centro a Palo Alto da far invidia alla Nasa  e dove è stato inventato il Pc, il mouse, il telecopier, l’antenato del fax, la rete Ethernet…) e dalla produzione nostra specifica, verso i titoli finanziari. Ma ciò non ha costituito la vera deriva finanziaria: quello che ne è stato il fulcro è il cambio culturale che ha impegnato i massimi dirigenti, poi a cascata quasi tutti gli addetti, a traghettare le imprese verso l’idea suicida per cui ciò che vale è la percezione del mercato verso l’azienda stessa e non la qualità e la utilità dei beni o servizi prodotti».
 
Questa mutazione cosa ha significato in concreto?
«Ha significato che il manager di turno, nel pieno di questa deriva, ha avuto un mandato di 3-5 anni durante il quale doveva garantire un incremento di valutazione borsistica, ché altrimenti i fondi di investimento sarebbero stati dirottati su altre opzioni. L’Ibm fu una delle prime ad applicare la ricetta: siccome si era arrivati, attraverso varie fasi ( il controllo qualità, l’azienda snella, il reegineering, l’empowerment…), a teorizzare che l’azienda sana e affidabile era quella che teneva sotto controllo i costi, principalmente il costo del lavoro, licenziò 20 mila persone e immediatamente le azioni Ibm ebbero un’impennata che certamente fruttarono al suo amministratore delegato bonus da capogiro».
 
Ma non c’è stata nessuna obiezione?
«Siccome questi manager avevano un impegno limitato nel tempo e un mandato eseguito perfettamente, ogni obiezione del buon senso comune, era ritenuta un residuo vetero-industriale e sindacale. Se, infatti, l’azienda vale solo per quello che si percepisce in Borsa, diventa secondario sapere ciò che produce,come e con chi lo produce. Le cosiddette “risorse umane” sono diventate carne da finanza. All’inizio degli anni Novanta ebbi la possibilità di vedere l’organigramma mondiale della "corporate" in cui lavoravo (non era,infatti, di pubblico dominio). Erano gli anni in cui si era teorizzata la rimodulazione dell’intero apparato produttivo, per cui si doveva passare da una struttura normalmente piramidale ad una struttura a matrice, con catene di competenze e responsabilità a cascata; insomma la piramide doveva essere più schiacciata possibile per evitare burocrazie e ripetizioni inutili, che rallentavano il ciclo produttivo e decisionale».
 
Un’esigenza razionale a tutti gli effetti, ma come si è realizzata?
« La cosa più impressionante di quell’organigramma fu il constatare il numero, esponenzialmente aumentato, di capi che stavano sopra, sotto, di lato e in mezzo alla struttura a matrice: i vecchi quadri intermedi fra il vertice della piramide e la sua base, schiacciandosi la stessa, “saltavano” sopra il vertice della medesima, aumentando così il numero dei manager che hanno ottenuto benefici finanziari per alcuni anni, cioè finché c’erano teste da tagliare e condizioni lavorative da peggiorare con l’effetto di aumentare il valore del listino borsistico».
 
A livello numerico cosa ha significato nella sua azienda?
«La mia azienda, come l’Ibm e tante altre multinazionali, passò, nel giro di pochi anni, da 98 mila a 60 mila addetti nel mondo. Da leader mondiale del suo settore si è, adesso, ritagliata un mercato di nicchia specialistico, banalizzando il suo marchio e il suo know how. All’interno di questo periodo storico segnato da questa cultura aziendale si è svolta la mia attività di delegato sindacale e co-segretario del Coordinamento sindacale nazionale del gruppo industriale. Abbiamo sperimentato sulla nostra pelle la difficoltà, a differenza delle aziende italiane, di dover contrattare con un management che aveva poteri decisionali limitati, qui in Italia. Ma la dimensione multinazionale veniva poco capita a livello locale, anche dalla struttura sindacale territoriale».
 
Dunque avete vissuto un forte disorientamento nella vostra azione?  
«Ho incontrato tanti colleghi con un’idea alta del sindacato e della dignità delle persone e del lavoro, che hanno sofferto molto in questo tempo di “deriva finanziaria”, tempo che ha quasi annullato questi valori per cui siamo entrati a far parte del sindacato. Quando abbiamo provato ad esigere le conquiste già date per acquisite ci siamo trovati in pochi e senza sostegno alle nostre spalle come se i diritti acquisti durassero per sempre. E, invece, lentamente sono stati erosi nel tempo. Ho incontrato anche qualcuno che ha fatto i suoi interessi personali invece di quelli dei lavoratori. La contrattazione aziendale e la concertazione, per come è stata gestita, ha comportato il prevalere dell’interesse della proprietà. Se invece vogliamo recuperare uno sguardo attento al bene comune, soprattutto in tempo di crisi, bisogna evitare di contrapporre il lavoro ai diritti, il salario alla sicurezza del posto di  lavoro».
 
Cosa occorrerebbe fare, secondo lei?
«Il tentativo di dare una spallata al contratto nazionale era in voga anche ai miei tempi, nei quali anche in sindacati come il mio sarebbe stato impensabile derogare da esso. È vero che i tempi cambiano e tale cambiamento esige una flessibilità  di adattamento da parte sindacale, se essa vuole rappresentare una reale, e non ideologica, tutela del lavoratore e della dignità del lavoro e, aggiungo, di chi il lavoro non c’e l’ha o lo ha perso. Bisogna però stare attenti a non contrabbandare la contrattazione con la “pancia piena”, specie di chi è occupato, in contrapposizione con il precario o il disoccupato. Non si può, in nome di un pragmatismo sindacale, rinunciare a idealità che sono state (e devono continuare ad essere) alla base e fondanti il sindacato stesso. La sfida odierna mi pare questa: riuscire a spostare il paletto del potere contrattuale (potere nel senso della possibilità di interlocuzione) un po’ più avanti, là dove si decide la politica economica e sociale. Ciò pone anche il problema della rappresentatività del sindacato e del suo impatto specie con le nuove generazioni che, a mio avviso, se non ritrovano questo rapporto con l’idea del Sindacato (con la S maiuscola), messo in crisi soprattutto dalla non coerenza di troppi comportamenti, perderanno anche quello che erroneamente ritengono ormai dato per acquisito».
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