Come dare acqua al baobab
L'iniziativa dei Focolari per la formazione di giovani africani, che s'impegnano a restare nei loro Paesi.
Il baobab, si sa, è l’albero tipico della savana, alla cui ombra la gente trova ristoro. Mi è capitato di vedere, in un documentario, un bambino africano che con un barattolo ammaccato e arrugginito aspergeva d’acqua un magnifico esemplare di questa pianta. Era la bevanda che toglieva alla sua scarsa razione quotidiana, procurata con immensa fatica dalle madri e dai bambini del villaggio.
«Fatica inutile – mi veniva da pensare –: è come pretendere di dissetare un elefante con un bicchiere d’acqua!». A ben guardare, però, l’albero esibiva una corona di rami novelli, nodosi e forti, che presto avrebbero potuto offrire frescura al luogo di ritrovo degli abitanti.
Ed ho iniziato a convincermi che quel bicchiere d’acqua, offerto dal cuore puro di un bambino, fosse non solo necessario, ma sufficiente a tenere in vita e far crescere un albero così grande.
Quest’immagine mi è tornata alla mente allorché mi è stato presentato il bilancio di tre anni di vita di “Fraternità con l’Africa”, il progetto che ha preso il via nel 2006 a Budapest, durante la manifestazione per il cinquantesimo della nascita dei “volontari” dei Focolari, laici, impegnati nel sociale e nel civile per concorrere a ad attuare la fraternità a livello planetario. Non solo perché come “logo” è stato scelto il baobab, ma anche per la natura stessa del progetto: un sistema di finanziamento di borse di studio a giovani africani, con la condizione che s’impegnino a restare in futuro nella propria terra e contribuire alla crescita della comunità.
Si sono moltiplicate da allora le iniziative per sensibilizzare e raccogliere fondi, diverse e simili, dalla Spagna al Belgio, dalla Francia all’Inghilterra e all’Est europeo, dalla Corea al Brasile e alle varie regioni italiane. Non sono nuove le formule. Nuova è la condivisione – da parte di persone di ogni età e condizione, nei più vari contesti sociali e territoriali – di quest’idea che ha convinto per la serietà e l’impegno con cui viene condotta. Opportune commissioni locali propongono le candidature e ne seguono il percorso formativo. La gestione dell’iniziativa è stata affidata all’Ong dei Focolari “Azione per un mondo unito” (Amu) che, grazie ai progetti realizzati nel tempo, ha referenti nelle singole comunità locali.
Cinquanta sono sino ad oggi le borse di studio erogate in diversi ambiti: ingegneria, amministrazione, informatica, scienze infermieristiche, medicina, comunicazione, finanza, agraria, psicologia, meccanica, pedagogia… E se queste cinquanta ci sembrano poche, pensiamo al bicchiere d’acqua offerto al baobab.
Ma come mai, tra le tante emergenze in Africa, si è pensato di investire in istruzione professionale, per benefici cioè che si avranno saranno solo a lungo termine?
«Secondo una recente indagine delle Nazioni Unite, ogni anno – risponde Marcella Ferrari, presidente dell’Amu – 70 mila africani altamente qualificati si trasferiscono in Occidente attratti dai programmi di “emigrazione selettiva”. Tanto che il numero dei professionisti africani emigrati all’estero è triplicato negli ultimi 40 anni, con fenomeni paradossali come quello che vede gli Stati Uniti ospitare più medici nigeriani della stessa Nigeria. In Kenya, il 90 per cento del personale medico emigra negli Usa e in Europa».
L’esodo dei cervelli ha per l’Africa un costo economico e istituzionale molto alto. Gli investimenti nell’istruzione rendono poco, e questo proprio perché sono numerosi i diplomati che vanno all’estero, e troppo pochi quelli che rientrano. D’altro canto, la mancanza di specialisti obbliga le istituzioni a ricorrere alle competenze occidentali (fino a 150 mila professionisti, ovviamente superpagati).
«Numerose le strategie di rimpatrio – prosegue la responsabile dell’Amu – avviate dalle Nazioni Unite e dall’Unione africana, rimaste sino ad ora infruttuose. Ecco perché, a nostro avviso, è necessario cercare soluzioni partecipate, condivise e convincenti. Ciò di cui c’è maggiormente bisogno è che siano rispettati nella loro dignità di persone».
È proprio ciò che il progetto “Fraternità con l’Africa” si sforza di realizzare. Offrire il sostegno necessario perché questi giovani possano mettere a frutto le loro migliori energie, e sollecitarne allo stesso tempo impegno e corresponsabilità. La presenza in terra africana dell’ideale dell’unità sollecita e favorisce uno scambio e una circolazione di doni di cui ogni popolo e ogni cultura sono portatori. Chi ha mezzi economici e competenze dà, e dà chi ha talento. E tutti ne godono.
Quel “debito” con l’Africa
«L’Europa ha un grande, grandissimo debito verso il popolo africano… Ebbene: il continente africano è stato il più sacrificato? Sarà il più privilegiato, il primo ad essere aiutato. E ciò perché lo merita». Chi era presente allora, nel giugno del 1969, al congresso internazionale del Movimento Gen (“Generazione Nuova”, i giovani dei Focolari), non ha dimenticato le parole con cui Chiara Lubich affidò alla seconda generazione, nell’epoca della contestazione giovanile, l’“Operazione Africa”, un’azione mondiale per sostenere la nascente cittadella di Fontem, che ingaggiò migliaia di giovani in tutto il mondo alla “riparazione” del debito contratto con l’Africa.
Attualmente, i Focolari sono diffusi in quasi tutti i Paesi africani. L’inculturazione del Vangelo in quelle società, secondo la spiritualità dell’unità, è visibile prima di tutto a Fontem e nelle altre due cittadelle che sorgono in Costa d’Avorio e in Kenya.
Nella Cittadella Piero, nei pressi di Nairobi, fondata dalla Lubich durante il suo viaggio del 1992, si svolgono corsi di inculturazione a servizio di tutto il continente. Vi ha sede, inoltre, la redazione della rivista bilingue New City Africa/ Nouvelle Cité Afrique per tutto il continente.