Come aiutare chi non si può salvare? La storia di Caterina, volontaria in Libano

Caterina Mazzullo studia giurisprudenza all’Università di Bologna Alma Master Studiorum e all’Università Paris Nanterre X. Ha scelto di partire sola per il Libano come volontaria per lavorare a fianco di bambini e anziani con il progetto Milonga.
Una ragazza porta sulle spalle la bandiera del suo paese, il Libano. (Foto di Caterina Mazzullo)

Il 5 luglio 2023 Caterina Mazzullo, 21 anni e zaino in spalla, si reca all’aeroporto di Catania. “Così sono partita per il Libano, portandomi dentro un’energia che non sapevo di possedere e una voglia matta di fotografare ogni istante”. Un viaggio che dura circa undici ore, compreso un lungo scalo a Istanbul, e che la conduce come prima tappa nella città di Beirut. Ad accoglierla Osvaldo Garcia, responsabile del progetto Milonga, che prevede programmi di volontariato internazionale per giovani tra i 18 e i 35. «Cate, ti cambierà la vita», così le aveva scritto una cara amica il giorno prima di partire.

Foto di Caterina Mazzullo, che suona la chitarra per i giovani libanesi.

A posteriori realizza quanto la scelta di partire per un Paese così complesso sia stata forte, anche rischiosa. Ma Caterina sentiva un bisogno in lei, quello di mettere le mani in pasta, di partecipare. Spiega però che c’è stata un’altra ragione che l’ha spinta a partire per il Libano: “È un Paese di cui oggi in occidente non si hanno molte notizie, molti non ne conoscono nemmeno il nome. Una sorta di isola geografica confinante con la Siria, i suoi rapporti politici sono in bilico e condizionati dalla guerra siriana e dal conflitto tra Hezbollah e Israele”.

I libanesi hanno vissuto una guerra civile fortissima (1975-1990), hanno visto Beirut divisa in due, tra cristiani e musulmani. Oggi convivono in questo stato, il Libano, che comprende 18 confessioni differenti. Ogni partito politico esprime un’identità religiosa. Il potere è ripartito tra sciiti, sunniti e cristiani. La fede diventa quindi elemento di identità e di appartenenza. Il crollo della lira libanese, la crisi economica del 2019, il Covid-19 e la bomba scoppiata “accidentalmente” nel porto di Beirut, il 4 agosto 2020, hanno portato questo paese alla caduta del Governo e al fallimento dello Stato.

Uno stato in cui resistono e convivono persone con differenze sostanziali che, per qualche strano motivo ancora a me sconosciuto, fortificano i cittadini libanesi”, racconta Caterina, che è riuscita a vivere al meglio questa sua esperienza grazie anche alla conoscenza del francese. Lingua che, sebbene l’arabo sia quella ufficiale, è stata molto utilizzata dai cristiani dopo il periodo di colonizzazione francese. Caterina ha fatto un’esperienza di volontariato molto diversificata. Ha lavorato con dei bambini per circa un mese, in un centro collocato a Baabdat, una cittadina sulle montagne di Beirut. Lì, per la prima volta, ha sentito che doveva occuparsi di altri oltre che di se stessa. Si è dovuta mostrare forte innanzi alle difficoltà vissute da questi bambini, più grandi delle proprie, ma che rappresentavano -e rappresentano- per quei piccoli la normalità.

“Ricordo le parole di Gabrielle, un’altra volontaria del centro, quando le chiesi come potessi aiutare Diana, una bambina che piangeva disperatamente a causa di una carie. Gabrielle mi ha semplicemente detto che non potevo, che non era il nostro compito perché non siamo medici. Ricordo che, quando è terminata la colonia estiva, una bambina è dovuta restare nel centro perché nessuno è venuto a riprenderla. Una settimana dopo l’abbiamo dovuta riaccompagnare noi a “casa”: una baracca dove il padre ubriaco urlava dalla finestra. Non ho avuto il coraggio di scendere dall’automobile”.

Caterina aveva questa costante sensazione che il proprio lavoro non fosse mai sufficiente, perché la consapevolezza di non poter effettivamente incidere in maniera decisiva sulla quotidianità precaria e la povertà di intere famiglie che la circondavano era disarmante. Eppure, vivere con loro le ha insegnato a stare di più nel presente, alleggerendo la paura che aveva delle scelte sbagliate, dando invece più spazio alle emozioni e a utilizzare le proprie energie per se stessa e per gli altri. Ad inizio viaggio si augurava: «Che questa esperienza possa restarmi sulla pelle, che non sia né una breve parentesi, né un punto di arrivo. […] Se c’è una cosa che ho imparato in Libano, per la precisione a Beirut e sulle montagne vicine, è stata proprio la lentezza con cui si vivono e si assaporano le cose». Un’esperienza talmente immersiva che le faceva dimenticare le fragilità che aveva lasciato alle spalle in Italia.

Oltre al percorso di accompagnamento di questi bambini, Caterina ha trascorso due settimane anche in una casa di riposo, si chiama “Le foyer des tetes blanches”. Sono state piuttosto intense e ha sperimentato qualcosa di totalmente nuovo. Riconosce che i primi giorni ha dovuto veramente fare uno sforzo fisico e mentale per adattarsi alla quotidianità di questo gruppo di dodici anziani. Se con i bambini a volte bastava anche solo un sorriso per renderli felici, in casa di riposo Caterina si rende conto che il suo lavoro sarebbe stato molto meno determinante di come avrebbe desiderato.

Lavorare con dei bambini significa anche trasmettergli la speranza che la loro situazione possa migliorare con il tempo. Al contrario, molte persone anziane in casa di cura sono in costante contatto con la staticità delle loro vite. Ricorda i discorsi fatti con Antoinette sul dondolo, un  giorno in cui si è trovata a contare le volte in cui la vecchia signora ripeteva la parola misère (miseria, ndr): «Comment tu veux te soigner lorsque tu es dans la misère, c’est un pays plongè dans la misère, il n’y a que de la misère» (Come puoi prenderti cura di te stesso quando sei in miseria, è un Paese immerso nella miseria, non c’è altro che miseria).

L’ultimo periodo di questo viaggio formativo Caterina l’ha trascorso collaborando con il Movimento dei Focolari (ufficialmente Opera di Maria). Ha seguito l’organizzazione di un cantiere che quella stessa estate avrebbe riunito giovani tra i 9 e i 17 anni da Libano, Siria, Giordania, Iraq, Algeria, anche dall’Italia. «Non c’era un reale confine tra me e i ragazzi, data anche l’esigua differenza d’età. Sono stata assistente e bambina allo stesso tempo. Avevo il diritto di piangere, di lasciarmi andare quando le emozioni prendevano il sopravvento, ma dovevo anche occuparmi di questi ragazzi, accoglierli nel momento del bisogno. Abbiamo sperimentato sulla nostra pelle che diversità non vuol dire mancanza, ma ricchezza».

Un’esperienza unica per Caterina, che porterà con sé per tutta la sua vita. «Per me il Libano è stato un ascoltarmi, un rendermi conto di una verità forse scontata, ma che bisogna provare su di sé per capire a fondo. A volte la realtà fa paura, ma è importante aprire gli occhi per guardare».

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