Come affrontare la recessione
Quali sono le possibili vie per risollevare il nostro Paese dalla difficile congiuntura economica in cui ci troviamo?
Un Paese è in recessione quando per due trimestri successivi il suo prodotto interno lordo (Pil) diminuisce: purtroppo per l’Italia si sta verificando nuovamente. Il Pil non è un indicatore perfetto: la ricostruzione di un ponte crollato lo fa aumentare, mentre non incide su di esso il lavoro delle centinaia di "angeli del fango" che volontariamente hanno operato nelle strade dopo le alluvioni, né tantomeno i tanti altri atti di gratuità che rinsaldano, danno senso e calore alla vita civile.
Comunque, quando il Pil diminuisce, la produzione ed i consumi sono ridotti: per tante ragioni, una delle più frequenti la mancanza di fiducia nel domani. Davanti ad un futuro più buio si tende a ridurre l’acquisto dei beni e dei servizi che quanti ci stanno attorno sono pronti ad offrirci, così questi vedono ridurre le loro entrate e fanno altrettanto. Quando c’è fiducia tutti spendono ed i prezzi aumentano, anche con rischio di troppa inflazione, ma quando non c’è fiducia la riduzione dei consumi fa contrarre la produzione e l’eccesso di prodotti in vendita fa ridurre i prezzi, questa volta col rischio di deflazione: non è infatti sempre positivo per lo sviluppo quando i prezzi scendono, perché pensando che rimandando gli acquisti si spenderà ancora meno si è portati ad acquistare solo l’indispensabile.
Lo sviluppo economico è un fenomeno sociale: cresce, "lievita" se vi è fiducia nel domani come un panettone tenuto alla giusta temperatura, si affloscia se arrivano spifferi di sfiducia; l’Italia potrebbe prendere la malattia della deflazione che può avere strascichi per decenni, come sa il Giappone, una volta seconda potenza economica mondiale. Occorre reagire, stimolare la crescita di produzione e consumi: lo si è fatto in passato agevolando la rottamazione di automobili, motorini ed elettrodomestici, ma la cosa ha un senso solo se i nuovi prodotti permettono una vera riduzione di consumi e minor impatto ambientale, altrimenti si rivela solo come una droga momentanea dell’economia col risultato di uno spreco di beni che potevano essere utili ancora per anni e la rinuncia a futuri ricavi per imposte dello Stato.
Un rimedio migliore è quello suggerito negli anni Trenta dell’economista inglese Keynes: investire in grandi infrastrutture utili al bene comune. Subito si occuperanno lavoratori probabilmente disoccupati o sofferenti perché in cassa integrazione, il cui costo, quando utilizzata fuori misura, è comunque a carico dello Stato. In questa direzione il governo Monti ha subito dato un segnale positivo finanziando e facendo aprire i cantieri per il terzo valico ferroviario, che unirà tramite una lunga galleria il porto di Genova con la Valle Padana, rendendo dopo trent’anni di progetti più competitivo l’accesso dal Mediterraneo di un vasta area dell’Europa continentale.
Per moltiplicare questi investimenti strutturali occorrono però molte risorse. La manovra attualmente al voto in Senato è in buona parte dedicata al raggiungimento del pareggio di bilancio promesso all’Europa, reso più difficile dall’aumento degli interessi delle ultime emissioni di titoli di Stato: quindi per uscire dalla recessione sarà questa volta giocoforza recuperare risorse dagli evasori, oggi individuabili con un grande calcolatore grazie al programma Serpico, che riesce ad incrociare i molti dati informatici diversamente recuperati dalle attività degli italiani. Non vi è alternativa, visto che Monti non è riuscito a convincere Germania e Francia a tener fuori dal calcolo del pareggio di bilancio le spese di investimento nelle grandi infrastrutture.
Altro modo per risollevare il Pil è rendere meno caro il lavoro e più alti gli stipendi netti, riducendo le imposte sul lavoro: così si potrebbe aumentare la competitività delle aziende ed incoraggiarle a crescere di dimensione, per meglio competere sul mercato internazionale.
Per raggiungere questo obiettivo occorrerebbe però eliminare il presente ostacolo alla crescita aziendale legato al limite di 15 lavoratori oltre al quale l’azienda non ha il diritto di licenziare personale senza incorrere in cause del lavoro che durano anni, con i costi ad esse correlati. Vi è molta resistenza a modificare l’articolo 18 della legge sul lavoro, eppure si dovrebbe rendere possibile interrompere il rapporto di lavoro con il pagamento di penali, anche solo per ragioni produttive: almeno per quanti non hanno ancora un contratto a tempo indeterminato e che senza queste nuove regole stenteranno ad averlo in futuro.