Colombia: se la verità fa paura
Per ragioni diverse, ad alcuni la pace in Colombia non conviene. Non conviene a certi, pochi in verità, dissidenti dell’ex gruppo armato delle Farc, oggi inserito politicamente col nome: “Forza alternativa rivoluzionaria comune”. Si tratta di una ventina di dirigenti che hanno annunciato il ritorno alle armi. Sono capitanati da Iván Márquez, ex numero due da guerrigliero. Una scelta assurda di colui che, tra l’altro, è stato tra i negoziatori del processo di pace per quattro anni, nel cui quadro Márquez venne designato senatore, in applicazione del punto che ha concesso al gruppo dieci seggi in Parlamento. Un ruolo che ha sempre eluso preferendo la clandestinità.
In un video, il dissidente ha denunciato l’applicazione parziale degli accordi di pace e la mattanza di rappresentanti della società civile (500) e di ex guerriglieri (150). Ciò che più stupisce è la convinzione con la quale crede di rappresentare la volontà popolare ed il «diritto universale dei popoli ad insorgere contro un oppressore» (il governo). E per farlo Márquez sorvola la realizzazione di elezioni democratiche nelle quali la Farc hanno raccolto appena il 3% dei voti. Un appoggio così limitato da consigliare il ritiro del proprio candidato alla presidenza.
Il presidente della Farc, Rodrigo Londoño, ha condannato senza mezzi termini questa decisione «sbagliata e delirante», che non riconosce il desiderio del popolo di «mettere fine al conflitto armato» e di «consolidare definitivamente la pace e la giustizia sociale». Il gesto di Márquez e compagni dice anche che la pace è scomoda per chi non riesce a confrontarsi con la realtà e col gioco democratico, che rivela fino a che punto si è realmente rappresentativi del sentire dell’elettorato. Márquez rinuncia al realismo politico forse perché solo nell’illegalità ha la possibilità di contare ancora qualcosa, quand’anche ciò significhi perdere di vista il bene comune della pace.
Ma gli accordi di pace sono temuti anche dal Centro democratico, condotto dall’ex presidente Alvaro Uribe, partito che vi si oppone in modo radicalizzato. La ragione ufficiale di questa opposizione, in modo particolare alla “giustizia di transizione”, è che coloro che hanno commesso crimini di guerra, segnatamente le vecchie Farc, otterrebbero sconti di pena troppo generosi, col rischio di finire per essere trattati da rispettabili cittadini, magari trasformandosi in legislatori e, perché no, persino in ministri…
L’argomento usato non la dice tutta. Intanto per il poco peso politico della Farc, ma soprattutto perché la vera ragione di questa opposizione è la paura della verità che la giustizia di transizione può ricostruire. Infatti, oltre ai guerriglieri, possono ottenere una pena alternativa anche i criminali di guerra militari e paramilitari. E ciò a patto che siano confessate le colpe, si aiuti a ricostruire la verità dei fatti e si prometta di non ripetere i crimini commessi. E qui casca l’asino: molti dei colpevoli dovranno scegliere tra rientrare nella giustizia di transizione o rischiare in un processo ordinario una dura condanna. E molti tra i repressori e torturatori accusati di crimini di guerra non hanno nessuna intenzione di fare da capro espiatorio, mentre superiori e mandanti politici sono liberi.
Ricostruire la verità dei fatti confermerebbe definitivamente la vicinanza del Centro democratico ai paramilitari ed anche il ricorso, in piena presidenza di Uribe, alle più di 4.200 esecuzioni sommarie (spessissimo innocenti presi per strada) poi presentate come scontri armati per adempiere così alle quote di guerriglieri liquidati assegnate mensilmente alle varie unità. Significherebbe ricostruire la catena di ordini dati in merito o la rete politica di appoggio ai paramilitari e, dunque, una verità deve essere evitata.
Anche in questo caso, di mezzo ci va il bene comune della pace, celato dietro argomenti di elevata tecnica giuridica. E si sa, a volte le bugie sanno ammantarsi di parziali verità.