Colombia: la lunga strada per arrivare alla verità
Colombia: nelle prime pagine dei media la notizia degli arresti domiciliari dell’ex presidente Alvaro Uribe (2002-2010) ha preso il posto dei contagi per Covid-19. La decisione è stata presa dalla Corte Suprema – Uribe è senatore in carica –, che lo accusa di ostruzione della giustizia. L’ex presidente è anche indagato per la presunta partecipazione nella creazione, alla fine degli anni ’90, di gruppi di “autodifesa”, ossia paramilitari armati da privati e impiegati nella lotta contro le guerriglie sovversive (Farc, Eln).
Fondatore del Centro Democratico, un partito destra di stampo economico neoliberista, durante due mandati presidenziali Uribe ottenne il recupero del controllo di numerosi settori della Colombia da parte delle forze armate, spezzando così una sorta di assedio imposto a numerosi centri urbani, che impediva il libero transito di persone e merci.
Nella guerra, intervennero anche gruppi paramilitari, spesso in combutta con i latifondisti (la lotta armata prende origine proprio dalle disuguaglianze sociali, in modo speciale il possesso della terra) e con i narcotrafficanti. Come lo ha accertato una Commissione per la verità, istituita nel quadro degli accordi di pace, tutte le parti del conflitto si sono macchiate di crimini: le forze armate, le guerriglie, i paramilitari e, manco a dirlo, i cartelli della droga che hanno pescato nel torbido di questa storia.
La giustizia sta investigando i casi conosciuti come «falsi positivi», innocenti uccisi da unità delle forze armate e fatti passare come risultato di scontri armati. Le organizzazioni per i diritti umani sostengono che furono commessi circa 4.200 omicidi, di cui la giustizia ha accertato finora la metà. Le uccisioni avevano lo scopo di completare le “quote” di sovversivi eliminati assegnate periodicamente alle varie unità dai vertici militari, seguendo uno schema di permessi e incentivi vari che beneficiavano i reparti “efficienti”. La stragrande maggioranza di casi si verificarono durante la gestione di Uribe.
Nel 2014 il senatore Iván Cepeda stava indagando su questo tema e sull’azione di gruppi di autodifesa accusati di decine di migliaia di vittime, alla cui fondazione avrebbero partecipato Uribe e suo fratello Santiago. L’ex presidente chiese allora alla Corte Suprema di indagare il senatore Cepeda, accusandolo di manipolare i testimoni contro di lui. Le indagini però portarono a una conclusione opposta: gli elementi indiziari indicavano non solo che chi aveva cercato di corrompere i testimoni sarebbe stato proprio Uribe, ma questi appariva collegato con suo fratello all’azione dei paramilitari. Messo sotto accusa lo scorso anno, l’ex presidente è stato arrestato onde evitare la contaminazione o la distruzione di prove.
La vicenda ha acceso un intenso dibattito: Uribe è il mentore politico di Iván Duque, attuale presidente della Colombia, che mantiene con lui una sintonia ideologica dalla quale si discosta in aspetti di forma più che di fondo. Insieme all’ex presidente si oppone allo storico accordo di pace con le Farc, oggi mutate in partito politico. Entrambi rifiutano la sola idea di vedere in parlamento guerriglieri colpevoli di crimini di guerra, anche se non hanno mostrato lo stesso rifiuto nei confronti dell’impunità goduta troppo a lungo da militari e paramilitari pure accusati di crimini. Non a caso, il gesuita Francisco de Roux, presidente della Commissione per la verità, ha invitato le forze armate a indagare e rendere noti i legami tra paramilitari e uniformati macchiatisi di violazioni dei diritti umani.
In merito alle gravi accuse contro Uribe, Duque dice di credere senza «se» e senza «ma» nella sua innocenza e critica come un eccesso la decisione della giustizia, aprendo così anche un dibattito nei confronti di un potere dello Stato che, si suppone, agisce con indipendenza dal potere esecutivo. L’accusa contro un ex presidente è un episodio grave che rivela fino a che punto decenni di conflitto armato hanno fagocitato le ragioni delle parti: dalla guerriglia nata per reazione a una ingiustizia sociale profonda e violenta e poi trasformatasi in una sorta di cartello della droga, alle forze armate dimentiche del loro ruolo al servizio della sicurezza e dello stato di diritto divenute una minaccia, ai gruppi di autodifesa che hanno celato dietro la lotta alla sovversione la loro azione da criminali comuni al servizio dei potenti. Ma che tutti siano colpevoli in parte, non significa far luogo a una intollerabile impunità. Oggi tocca ad Uribe rendere conto del suo operato e dimostrare la sua innocenza.