Colloqui sotto un albero
Il leccio Eccolo lì, il mio amico di Orano, disteso supino sull’erba. Mi avvicino a lui che, nel riconoscermi, si rialza a metà e sorride.- Ciao, Zoer, ti ho portato qualcosa da mangiare. E anche dei vestiti… – Grazie, è la provvidenza. Ma non vorrei essere un peso per te. – Non preoccuparti… Ma cosa t’è capitato? In effetti, sotto il suo cappellaccio, si nota un segno violaceo e un gonfiore attorno all’occhio sinistro. Zoer abbassa lo sguardo, vergognoso: – Sono caduto… – Ti fa male? Scuote la testa. Mi siedo accanto a Zoer. Si sta bene all’ombra di questo grande leccio. Il traffico dell’adiacente viale delle Terme di Caracalla non disturba la pace di questi giardini, frequentati per lo più da gente che fa jogging. Rompo di nuovo io il silenzio: – Raccontami di te. Che lavoro facevi prima? – L’interprete. Conosco quattro lingue: l’inglese, il francese, l’arabo e l’italiano. Non ci credi? Sorrido: – Ma sì, e poi l’italiano lo sento… E dimmi: hai ancora i genitori? L’algerino scuote tristemente la testa: – Sgozzati dai fondamentalisti. – Terribile!… E fratelli, sorelle? – Sì, un po’ sparsi tra Francia, Belgio, Portogallo… – Non possono aiutarti? – No, non voglio essere un peso per loro. – Ma penso che sarebbero contenti di farlo. Forse per loro è un peso più grande immaginare le tue condizioni e non poterti essere di aiuto. – Non credo… In occidente hanno cambiato il loro modo di pensare. Gli batto amichevolmente sulla spalla. – Zoer, io rispetto te che hai tanto sofferto… – Ah sì, troppo! Ho fatto tanti sbagli nella mia vita… – Non per sapere i fatti tuoi, ma a cosa ti riferisci? Vorrei condividere da amico… – Ho avuto una donna che poi mi ha lasciato… un’italiana. È successo sei anni fa. – Forse perché bevevi? Di nuovo abbassa gli occhi. – Avevate dei figli? – Lei li aveva avuti da un altro, ma io li consideravo come miei… – Sai, chi ha sofferto come te credo possa capire meglio gli sbagli anche degli altri. Anzi dall’ultimo posto si può abbracciare un panorama più ampio… non ti pare? Lo vedo illuminarsi: – Non ci avevo pensato. Nuova pausa, mentre qualcuno in calzoncini e canottiera ci passa accanto correndo sull’erba fiorita. Rompo di nuovo io il silenzio: – Tu sei credente… – Sì, credo nell’unico Dio che ha creato questa natura e noi uomini. Credo in Abramo, Mosè, nel Cristo messia, e credo in Maometto. – E nella resurrezione ci credi? – Certo, sarà alla fine dei tempi, quando verrà il Cristo messia… Forse allora staremo insieme sotto un albero del Paradiso… – Per ora invece ci accontentiamo di chiacchierare da amici sotto quest’altro albero, vero? Ridiamo entrambi. La palma Giardini di piazza Vittorio. Su una panchina all’ombra di una splendida Phoenix canariensis siede un ragazzo di colore che mi sembra di riconoscere. Ci guardiamo, lo saluto… – Ciao, se non sbaglio vieni dalle Barbados… – Cosa? Ripeto più volte il nome di queste isole, che però sembra non dica nulla all’altro. Evidentemente non è la persona che pensavo. Intanto mi sono seduto accanto a lui, un tipo con barbetta rada e una folta massa di treccioline raccolte sotto un berretto. Facciamo conoscenza. Daniel (così si chiama) viene dalla Nigeria, è animista, dorme dove capita e come immaginavo non ha documenti… Alla mia domanda se faccia qualche lavoretto, risponde con solennità: – Il mio lavoro è seguire la missione che Dio mi ha dato… Comincia a fare discorsi strani con tono ispirato, da profeta. Mi è difficile seguirli, e quasi mi pento di essermi fermato. A sua volta vuol sapere chi sono, cosa faccio… È compiaciuto di sapere che sono nato lo stesso giorno e lo stesso mese di lui: – Quello dove ora lavori non è il tuo posto. Come me, tu sei fatto per cose più grandi… Ma non posso dirti tutto, non capiresti. Capirai quando certe cose che so io succederanno… Evitando di dargli spago su questi argomenti, gli chiedo cosa stava leggendo. Daniel mi mostra un vecchio giornale. In prima pagina c’è il volto sofferente di papa Wojtyla l’ultima volta che s’è affacciato alla finestra del suo appartamento, quando invano ha cercato di articolare parola per salutare i fedeli in piazza San Pietro. – Vedi? Il tuo papa soffre… è perché Dio non lo benedice… Mi spiace che Daniel la pensi così. Nel cercare una immagine che possa spiegargli plasticamente il mio pensiero, mi soccorre il vangelo. – Quando una donna sta per dare alla luce un figlio, cosa fa? Soffre, grida, non è un bello spettacolo da vedere… Eppure sta avvenendo in lei qualcosa di meraviglioso: sta generando una nuova vita. Non devi pensare che la sofferenza sia un segno di maledizione: è sempre un mistero, come il destino del seme che muore per far nascere una pianta. Daniel ora ha un’altra espressione, pensosa: – L’avevo detto che tu sei un grande… E continua, annunciandomi grandi cose preparate per me. Faccio uno sforzo per mantenermi serio, gli mostro invece un ascolto rispettoso. Conclude: – Noi due siamo fratelli nello Spirito, hai capito? Comunque capirai più tardi, quando leggerai di me sui giornali… Dio sia con te, fratello. Perplesso, ricambio il saluto, lasciandolo all’ombra della palma. Il cipresso Ovidio non è cattivo, ma quando ha bevuto, quel che viene fuori da lui non è certo il suo lato migliore. Pre- tende di frugare dentro la mia borsa, e al mio rifiuto si arrabbia: manca poco che alzi le mani. Mentre si allontana lanciandomi degli insulti, osservo Petru che ha assistito in silenzio alla spiacevole scena: stavamo chiacchierando appoggiati al tronco di un annoso cipresso nel parco di Colle Oppio, quando appunto siamo stati interrotti. La sua faccia normalmente mite è alterata dalla rabbia. Ce l’ha con il suo connazionale (romeno pure lui) per come s’è comportato verso di me, e solo perché cammina a fatica, con l’ausilio di due stampelle, non ha potuto dargli una lezione. Io però non me la sono presa: mi dispiace più che altro per Ovidio. E intanto il mio amico a ripetermi: – Scusa, ti chiedo scusa per lui. Lo ringrazio per la sensibilità dimostrata: – È bello che ti senti in dovere di riparare al posto di Ovidio. Siamo così legati fra noi uomini che ciò che uno fa di bene o di male si riflette inevitabilmente su tutti gli altri… Petru è credente, e una volta mi ha stupito perché invece di sigarette o di qualche moneta ha manifestato il desiderio di avere una crocetta da appendere al collo. Con lui posso parlare liberamente di religione. Lo colpisce l’idea che siamo tutti legati (è la realtà del corpo mistico, ma con lui non posso addentrarmi in spiegazioni teologiche). Forse non ci aveva mai pensato. – Ma quale contributo può dare un fallito, un ubriacone come me? – Non saprei… non immaginiamo l’effetto delle nostre preghiere e del bene che possiamo fare. Dio invece sa come utilizzare tutto per i suoi scopi. Siamo portati da lui, e anche noi portiamo gli altri. Mi guarda senza capire. – Ma sì, hai presente quei tapis roulants? Anche se stai fermo, quelli ti portano velocemente dove devi andare. Figuriamoci quando ci cammini sopra! Così la grazia Dio – con l’aiuto anche delle preghiere dei santi – ci porta, senza che ce ne accorgiamo, verso la meta…