Coldplay: l’album dell’anno
Il titolo, Viva la vida, non tragga in inganno. L’atte sissimo ritorno del quartetto britannico non è un inno alla gioia di vivere, ma piuttosto un sorvolo sulle ansie e le contraddizioni dell’oggi. E già l’inquietante sottotitolo (ovvero la morte e tutti i suoi amici) chiarisce il senso e l’anima bifronte di questo album, complesso ed ambizioso quant’altri mai. Subito in vetta alle classifiche di mezzo mondo, Chris Martin e soci sono oggi più che mai la pop band più rappresentativa del decennio; stanno ai Beatles quanto i Radiohead ai Rolling Stones, e questa loro quarta avventura discografica potrebbe essere il loro Sgt. Pepper. Tornati sul gran serraglio mediatico gravati da aspettative spasmodiche, i Coldplay hanno avuto coraggio, ed anziché lasciarsi portare dalla routine delle pop star han preferito sfidare (sè stessi, prima ancora che i mercati) rischiando di far storcere il naso ai tanti che da loro s’aspettavano un album di canzonette pop buone per attraversare l’estate. Un pericolo decisamente scongiurato: non solo per l’eccellente supervisione di quel geniaccio di Brian Eno, ma anche per la caratura delle nuove composizioni, capaci ad un tempo di non rinnegare nulla delle formule agrodolci che ne avevano decretato il successo, ma nel contempo di giocare sulla sperimentazione di nuovi moduli espressivi. Viva la vida (Emi) è un album pugnace e sanguinoso fin dalla copertina. Il tocco sapiente di Eno, uno che è sempre riuscito a convincere i suoi clienti a rimettersi in gioco, ha scrollato di dosso al quartetto l’eleganza un po’ leziosa tipica delle pop band di grido, virando il sound verso chiaroscuri ritmici, iperboli melodiche, e continue variazioni d’atmosfera: c’è molto degli U2 nell’approccio chitarristico, così come certi aromi riportano ai Beatles più crepuscolari; ma alla fine ciò che schizza dai solchi è una summa del loro stile, una griffe perfetta per far da colonna sonora a questo scampolo di decennio sospeso tra depressione e urgenze valoriali, tra nevrosi ansiogene per quel che sarà, e nostalgie struggenti per ciò che s’è irrimediabilmente perso. CD Novità Favonio Favonio (Preludio) L’ampio ensemble foggiano (una decina di elementi) prende il nome dal föhn, e di questo vento sembra possederne tutto il calore e gli umori. In questo notevole debutto offrono undici brani che da un lato svelano una spiccata vocazione cantautorale (da Conte a Capossela passando per Baccini) e dall’altra l’estroversione ritmica e melodica tipica delle folk band mediterranee. Un disco sorprendente, pieno di idee, godibilissimo. len Hansard & Marketa Irglova Once – Original Soundtrack (Columbia) Chi ha visto questo delizioso film di John Carney, sa quanto sia decisiva la colonna sonora. Chi non l’ha visto potrà comunque godersi le belle canzoni offerte da questa accoppiata (lui irlandese e lei ceca) che materializzano tutte le dolcezze e gli struggimenti della trama. Siamo nell’ambito del folk-rock d’autore: crepuscolare, minimalista, ma di rara intensità emotiva. Il singolo Falling Slowly s’è aggiudicato un Oscar. Parkbench Versus Blackout (Splitz-Egea) Martin Wissenberg è uno da tener d’occhio. Le sue canzoni lui le definisce: folk pastorale dai toni jazz-hippy. E ha ragione, perché racchiudono le malinconie acustiche di Nick Drake, le tenebrosità di Nick Cave, le raffinatezze dei fiati jazz dei Morphine, e l’ecologismo etereo e blueseggiante di un poeta freakkettone. Una margherita fiorita dai fanghi della post-modernità.