Colazione con Audrey
New York. Al n. 727 della V Avenue, sull’austera facciata in pietra grigia di una costruzione a un piano, è incisa l’insegna: “Tiffany & Co.”, la gioielleria mito resa celebre grazie anche al film del 1961 Colazione da Tiffany, tratto dall’omonimo romanzo di Truman Capote, film diretto da Blake Edwards e interpretato da una giovanissima Audrey Hepburn e dall’attore George Peppard.
Sono ormai passate alla leggenda le prime sequenze: mentre scorrono i titoli e risuona la struggente Moon River di Henry Mancini, premio Oscar per la migliore colonna sonora del 1962, alle prime luci del mattino, discesa da un taxi, appare lei, Audrey, nei panni della squinternata Holly Golightlay: tubino nero, collier di perle e occhialoni scuri. S’avvicina alla vetrina della gioielleria e, assorta nella contemplazione delle gioie in mostra, consuma la danese e il caffè nero che ha portato in un sacchetto di carta. Colazione da Tiffany, appunto.
Holly va pazza per questo luogo, l’unico dove, nella sua esistenza randagia e solitaria, si senta sicura, accolta. Sempre a caccia di un miliardario da sposare, eppure affamata di autenticità e amore vero malgrado le discutibili esperienze (che però non intaccano la sua innocenza di fondo), trova il suo rifugio in questo tempio laico («Niente di brutto può accaderti qui», dice), dove la bellezza e la preziosità dei gioielli simboleggiano altri valori, più spirituali, ai quali la ragazza tende inconsapevole.
Nessuno meglio di Audrey Hepburn poteva dar vita a questo personaggio complesso e sofferto, ma allo stesso tempo infantile e divertente, creato dal genio di Capote. Icona di una femminilità delicata e sbarazzina, ben diversa da quella sexy di altre star, l'incantevole interprete di Vacanze romane, Sabrina e My Fair Lady continua ancor oggi a irradiare grazia col suo volto giovane e fresco riprodotto su poster, calendari, borsette… Già annoverata tra le donne più eleganti del mondo, il suo stile fa tuttora testo in riviste che parlano di moda. Davvero il suo è un mito che resiste alla prova del tempo.
Eppure a questa immagine popolare e piena di fascino ne preferisco un'altra meno nota, ma per me più espressiva della sua bellezza interiore: quella di una Audrey non più giovane, il viso ancora bellissimo ma segnato da profondo dolore, che in un campo profughi sorregge un bambino somalo scheletrico. Quasi una Pietà dei nostri giorni, che sembra stringere a sé il peso di tutto il dolore innocente del mondo. Era nei giorni successivi alla sua prematura scomparsa nel 1993, e nell'articolo a cui si riferiva questa foto il rimpianto per la perdita di un'artista di talento si univa a quello per la portavoce dell'Unicef che nell'ultima parte della sua vita non s'era risparmiata pur di attirare l'attenzione internazionale sulla tragedia di milioni di piccole vittime della miseria o della guerra.
Man mano che mi documentavo, ammiravo altri valori nella Hepburn: la sua capacità di esser grata di ogni dono della vita, l'umiltà e determinazione, ad esempio. Lungi dal considerarsi una persona arrivata, sapeva di dover sempre costruirsi e conquistare con sacrificio, disciplina e professionalità le mete a cui tendere. Era una donna semplice, che i complimenti mettevano in imbarazzo. Estranea a quanto fa parte di un certo folklore del mondo della celluloide (pettegolezzi, eccessi, trasgressioni), non si riteneva certo una star, ma una attrice fortunata che riconosceva di dover molto ai soggetti che le erano stati proposti e ai registi e colleghi con i quali aveva lavorato.
Il suo primo vero ritratto privato è stato tentato dal figlio Sean, nato dal matrimonio con l'attore Mel Ferrer: Audrey Hepburn, un'anima elegante (Tea, 2007), che ripercorre la vicenda della celebre madre: dall'infanzia senza padre in un'Olanda occupata dai nazisti, all'apice della carriera cinematografica, fino ai giorni vissuti lontano dalla macchina da presa e nell'impegno per i bambini meno fortunati del mondo. L’ultimo invece, Audrey mia madre (Mondadori Electa, 2015), è opera dell’altro figlio Luca, nato dal secondo matrimonio dell’attrice con lo psichiatra Andrea Dotti. Entrambi i volumi presentano della Hepburn una immagine inedita rispetto a quella immortalata dai fotografi, introducendoci con delicatezza nel ricco mondo interiore di una madre profondamente amata.
Ma siamo a New York: approfittiamone per visitare qualche altra location del film. Per esempio l’appartamento di Holly, al n. 169 della 59ma East, angolo Lexington Avenue, nella zona residenziale dell’Upper East Side. Si tratta di una palazzina multifamiliare del 1910 su due piani, dalle scale in pietra rossa e il portone verde, ora meta di turisti come altri luoghi del film.
E poi la monumentale Biblioteca Pubblica con l’ingresso ornato da due leoni: in questo edificio del 1911, situato all’angolo tra la 42ma Street e la Quinta Avenue, lo scrittore esordiente Paul accompagna Holly, che non c’è mai stata, per mostrarle una copia del suo primo libro.
Trasferiamoci al Central Park, sotto la volta del Naumburg Bandshell, il teatro all’aperto dove avviene il chiarimento tra Paul, sempre più innamorato di Holly, e l’ex marito di lei venuto a riportarla nella sua fattoria nel Texas: una costruzione absidata dove fin dai tempi della sua inaugurazione nel 1862 si tengono concerti e spettacoli teatrali.
Dopo il drammatico addio all’ex marito, Holly cerca conforto con Paul nel prestigioso Club 21, al n. 21 della 52ma Street, uno dei più antichi bar ristoranti di New York, già frequentato da presidenti Usa e divi dello schermo.
Siamo al n. 375 della Park Avenue, all’incrocio con la 52ma Street lato est. Il sogno d’amore di Paul sta per infrangersi a causa del prossimo matrimonio di Holly con un facoltoso brasiliano. Prima di prendere il volo per il Brasile, la ragazza ne parla con il deluso innamorato. Entrambi siedono sul muretto di una fontana che ha come sfondo il Seagram Building, grattacielo di 38 piani che all’epoca del film costituiva uno dei più moderni esempi di questa architettura funzionale.
Concludiamo la visita dove l’abbiamo iniziata, nel luogo più magico del film, quello che ha dato il titolo al film: la gioielleria Tiffany col suo pretenzioso portale sormontato da un Atlante che regge un orologio, con le sue atmosfere ovattate e sacrali, con le sue vetrine sfavillanti che Holly-Audrey si mangiava con gli occhi mentre faceva colazione.