Col Vesuvio sotto i piedi
La giovane schiava aveva appena tirato su la secchia dal pozzo, quando, come sorpresa da un capogiro, dovette appoggiarsi ad uno dei pilastrini che sorreggevano la tettoia protettiva. Il suolo ondeggiava e all’improvviso un sordo boato sembrò provenire da sottoterra. Abbandonata la secchia sulla vera del pozzo, guardò stranita alcune galline che correvano qua e là all’impazzata nel cortile scoperto, mentre altre s’erano arrestate come pietrificate. Intanto, sbucati dalla cella vinaria, dal pressoio, dalla cucina e dagli altri ambienti di servizio, già s’affollavano i lavoranti al grido: «Il terremoto!».
Nello scompiglio generale, le invocazioni agli dei si mescolavano ai nitriti di un cavallo e agli abbaiamenti di un cane, provenienti dalla stalla. Nuove scosse inframezzate alle grida «Il terremoto! Fuggiamo!», riportarono la ragazza alla realtà. Corse fuori all’aperto: in fondo alla piana del Sarno si profilava, irriconoscibile, il Vesuvio dalla cui cima s’innalzava una colonna grigiastra che allargandosi smisuratamente, fra uno zigzagare di lampi, già cominciava a gettare un’ombra funesta sulle sottostanti campagne. A quella vista terrificante, seguendo l’istinto vitale, si precipitò anche lei dietro gli altri fuggiaschi. Via, al fiume! Là passava la strada per Nocera. Verso la salvezza? E già grigie pomici cominciavano a cadere su loro, sui vigneti, su tutto…
Così immagino la scena drammatica che dovette svolgersi, quel giorno fatale del 79 dopo Cristo, in una villa rustica del suburbio orientale di Pompei (oggi l’agro nocerino-sarnese). Duemila anni dopo, fra il 1993 e il 1994, quella azienda adibita alla produzione vinicola – simile a tante altre disseminate nel territorio vesuviano – riemergeva dal lapillo in un fondo a Scafati. Quella secchia di bronzo armata di fasce di ferro era ancora lì al suo posto, sull’orlo del pozzo. Così pure, nella stalla, gli scheletri del cavallo e del cane che nessuno, nella fretta di porsi in salvo, aveva pensato di sciogliere: entrambi con al collo un campanellino di bronzo. Altre testimonianze di una vita bruscamente interrotta, il mucchio di farina in un vano adiacente al frantoio delle uve, i residui vinari di certe anfore e i legumi nei loro contenitori di terracotta.
L’esplorazione di quella fattoria agricola, attribuita al liberto Narcisso Popidio grazie al ritrovamento di un sigillo, era stata condotta dalla dottoressa Marisa de’ Spagnolis, una carriera densa di scoperte importanti prima alle dipendenze della Soprintendenza Archeologica di Salerno, Avellino e Benevento, poi di quella del Lazio – direttrice, tra l’altro, del Museo di Sperlonga. Oggi continua studi e ricerche nel territorio di Itri, sua città natale, con la stessa passione e determinazione di quando, nella sua attività di scavo e tutela dei beni archeologici in Campania, s’era trovata «in prima linea in un territorio difficile e con connivenze camorristiche».
La sua avventura archeologica del decennio 1997-1997 nel territorio pompeiano e nella valle del Sarno è raccontata ora nel volume, edito da Ali Ribelli, Col Vesuvio sotto i piedi. «Il destino – esordisce l’autrice – mi ha offerto di vivere l’esperienza che un archeologo può solo immaginare e sognare: abitare all’interno dell’area archeologica di Pompei e lavorare in un territorio che si è inaspettatamente rivelato una vera miniera archeologica. Strutture e reperti, grazie agli interramenti provocati dell’eruzione del Vesuvio cui dovevano la loro distruzione, prendevano nuova vita e raccontavano la loro storia. Il Vesuvio era stato l’artefice della loro morte ma anche della loro rinascita. Come da un vaso di Pandora, giorno dopo giorno tiravo fuori dai terreni migliaia di testimonianze archeologiche che mi permettevano di mettere insieme un puzzle che ha cambiato la storia del territorio. Con questo libro desidero far conoscere quanto è avvenuto dietro le quinte dei più importanti rinvenimenti archeologici da me portati alla luce nel territorio pompeiano e nocerino-sarnese, e condividere le emozioni che si celano dietro le scene della vita di una donna-archeologa».
Veniamo così a conoscere Foce Sarno col suo teatrino ellenistico immerso nel verde e il vicino santuario identificato come quello di Mefite, divinità «collegata con il mondo sotterraneo da cui fuoriusciva, come un dono divina, l’acqua sorgiva». E a Nocera Superiore la necropoli monumentale di Pizzone: alcuni grandi mausolei, ciascuno con la propria storia. Come quello dei Lutazi con la duplice iscrizione di un padre che piange il figlio diciassettenne morto annegato in un fiume sotto i suoi occhi e dello stesso figlio che invita il viandante a compiangere la sua sorte (entrambe le iscrizioni in versi metrici, la prima in latino e la seconda in greco). O come la tomba detta “del calzolaio” dal dipinto raffigurante questo artigiano al lavoro nella sua bottega: unico documento pittorico del genere pervenutoci dal mondo antico. Per queste ed altre scoperte sempre a Nocera, alla de’ Spagnolis è stata conferita la cittadinanza onoraria.
E poi le ville rustiche riportate alla luce nel territorio di Scafati, tra cui appunto quella di Narcisso Popidio, con una tenace opera di controllo e tutela che andava contro gli interessi della malavita locale, come era stato fatto sapere all’archeologa come notizia confidenziale. «Mi veniva praticamente detto che avrei corso dei rischi se avessi proseguito con il mio “disturbo” in un territorio che doveva continuare non solo ad essere saccheggiato urbanisticamente, ma anche spoliato di ciò che restava di un eccezionale patrimonio archeologico».
La fermezza e il coraggio della de’ Spagnolis e dei suoi collaboratori, alcuni dei quali fatti segno di esplicite intimidazioni, i sacrifici per assicurare una vigilanza notturna ai reperti che via via venivano dissepolti in aperta campagna, hanno avuto la meglio, disinnescando il potenziale esplosivo. «Il Vesuvio non era di fronte a noi, era sotto di noi», afferma l’autrice. Di qui il titolo di questo libro che, come scrive Jason R. Forbus nella Nota dell’editore, è «in grado di trasmettere la passione per l’archeologia e coinvolgere tutti, addetti ai lavori e no, nell’avventura della scoperta».