Coco: un film di scheletri che parla di vita

Una pellicola di animazione sorprendente per spensieratezza, leggiadria e profondità. Il coraggio della Disney che mescola i quadri di Frida Kahlo con le coreografie di Busby Berkeley e con i gli “alebrijes”, gli animali spiriti-guida per farci riscoprire il vero senso della relazione con i defunti
Disney-Pixar via AP

Il film Coco tocca corde primordiali che hanno interrogato e interrogano gli uomini di tutti i tempi. Il tema della memoria, della morte, del ricordo dei propri cari, della possibilità di «una corrispondenza di amorosi sensi» tra vivi e defunti è uno dei nodi chiave di ogni esistenza. Se si pensa alla stima di 100 miliardi di morti avuti nel corso della storia dell’umanità sulla Terra non si può riflettere su dove sono, cosa fanno, che spazio e tempo occupano.

Domande da comuni mortali che si fece anche un medico statunitense, Duncan MacDougall. All’inizio del ‘900 cercò di misurare la massa ipoteticamente persa da un essere umano quando l’anima lascerebbe il corpo al momento della morte. L’anima, secondo lui, peserebbe 21 grammi e, sebbene i suoi studi non siano ritenuti scientifici, la sua teoria è divenuta popolare e ispirato anche un noto film 21 grammi, diretto dal regista messicano Alejandro González Iñárritu e vincitore di due premi Oscar. In ogni caso un peso non inconsistente perché se fosse moltiplicato per 100 miliardi sarebbero pur sempre 2.100 milioni di tonnellate. Un mondo ultraterreno parallelo con un peso insopportabile per qualsiasi sfera celeste, ma che nella pellicola disneyana si libra leggero, sfavillante di colori, luci e suoni per narrare la storia dell’irresistibile Miguel, un dodicenne messicano che rincorre il sogno di diventare un cantante famoso come Ernesto de la Cruz.

Il film è costruito secondo la ben consolidata trama del viaggio dell’eroe con svolte narrative precise. L’introduzione ci immerge nel mondo e nella famiglia di Miguel nel giorno in cui si ricordano i defunti, “el dia de los muertos” con tanto di tradizioni imposte con polso di ferro dalla abuelita, la nonna. Con le ofrendas, un altare ricco di fiori, foto dei defunti, succulente libagioni, i messicani pregano e ricordano i defunti nella speranza di avvertirli vicini. Invisibili agli occhi ma presenti. Non assenti per sempre.

Ne “el dia de los muertos” si ritiene che i defunti abbandonino per un po’ la dimora ultraterrena, attraversino un ponte di fiori, il confine che separa i due mondi, e diano un’occhiata ai loro cari in una grande riunione di famiglia, terrena e celeste. Ma Miguel si disinteressa a tutto ciò e scatena, involontariamente una logica opposta. È lui ad andare all’altro mondo e da lì deve cercare di tornare per salvare il suo vero padre.

La scena finale è toccante, commovente perché al di là degli stereotipi narrativi e visivi, come l’invenzione degli “alebrijes”, animali-chimera a tinte psichedeliche adibiti a spiriti-guida che ricordano la funzione dei nostri angeli custodi, si entra nel mistero della memoria, nell’indissolubile legame con chi non c’è più, nella dimensione della comunione al di là della fisica.

Se lo era già chiesto il filosofo Empedocle di Agrigento quando scriveva: «Non vi è nascita di nessuna delle cose mortali, né fine alcuna di morte funesta, ma solo c’è mescolanza e separazione di cose mescolate». Solo mescolanza di alcune sostanze eterne e indistruttibili che vivono solo se è vivo il ricordo.

La stessa risposta di Ugo Foscolo per il quale si può instaurare tra vivi e morti un rapporto e una celeste «corrispondenza d’amorosi sensi» creato e mantenuto principalmente dall’avere memoria dei defunti. Scrive ne I Sepolcri: «Non vive ei forse anche sotterra, quando gli sarà muta l’armonia del giorno, se può destarla con soavi cure nella mente de’ suoi? Celeste è questa corrispondenza d’amorosi sensi».

Un film da vedere perché non occulta la morte e non dimentica i morti e affronta il più grande duello tra Eros e Thanatos, Amore e Morte. Un duello che, per i cristiani è già stato vinto. «Quando rinnoviamo ‒ scrive Enzo Bianchi ‒ l’amore per i nostri cari che sono morti, noi vinciamo la morte perché rinnoviamo una relazione vitale, mentre essere immemori dei morti e sgomenti di fronte alla propria morte significa non essere realmente e autenticamente persone vive. L’amore ci fa sentire nemica la morte, ma l’amore per chi è morto ci può parlare della vita».

 

 

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