La lezione di Lorenzo Milani, più attuale che mai
Lorenzo Milani e i “folli di Dio”. Nel Vangelo di Luca, tutti così si esprimono, dopo la resurrezione del figlio della vedova di Naim: “Un grande profeta è sorto tra noi e Dio ha visitato il suo popolo” (Lc.7,16).
Il mistero del figlio della vedova di Naim è parabola dei ragazzi montanini e dei Mauro di San Donato a Calenzano. Ed essi confessano la profezia di don Milani, che ha ritrovato coloro che erano perduti, che erano morti e poi sono tornati in vita. Leggere don Lorenzo Milani, ascoltare la sua profezia è riconoscere la visita di Dio nella vita di questo straordinario prete, prima a San Donato e poi a Barbiana.
Davvero alla periferia della storia e delle chiese. Da Barbiana, Dio parla ai poveri e alle vittime del mondo, con una forza e una intensità che diventa dono dello Spirito Santo. Sono passati cinquanta anni, un tempo giubilare, un tempo di grazia per riconoscere la venuta del Signore. Dio disegna, nella vita di questa piccolissima comunità, la Chiesa povera e dei poveri, che papa Giovanni avrebbe annunciato a un mese dall’apertura del Concilio.
Il primato delle vittime
Ciò che spinge don Lorenzo è la sofferenza e l’umiliazione di Mauro, uno dei suoi ragazzi di San Donato, la cui storia viene raccontata in “Esperienze Pastorali”, nella lettera a don Piero. Egli subisce il licenziamento e rischia di perdere la fede, a causa dell’ingiustizia subita. Milani mette al centro delle sue scelte questo ragazzo, che deve portare sulle sue spalle la sofferenza dell’intera famiglia e che viene licenziato, in una condizione di assenza di diritti.
Per questo è necessario conoscere queste sofferenze, conoscere le persone che le subiscono e ne pagano il prezzo. Conoscerle una ad una. La storia di Mauro è assolutamente esemplare. Mauro non è un principio, una dottrina, ma una persona, che è stata licenziata brutalmente ed espulsa da un sistema politico e di potere, che avrebbe anche la pretesa di difendere l’ordine cristiano.
La lettera a don Piero inizia con il racconto dettagliato della storia di Mauro: «Mauro entrò a lavorare a 12 anni. Veramente il suo babbo voleva mandarlo all’avviamento. Ma non poté, perché in quei giorni lavorava in integrazione e la famiglia l’ha pesante … L’anno dopo il babbo restò disoccupato e il peso della famiglia passò sopra le spalle del ragazzo. Ma Mauro non fece smorfie a signorino: chiese due turni di 12 ore e li ottenne. A tredici anni, 12 ore. Una settimana di notte e una di giorno. E a cottimo. Il cottimo è un lento e diabolico suicidio. Specialmente per un ragazzo. Con la smania di riportare alla mamma una busta sempre più bella, ci si consuma e non si pensa alla salute».
Il lavoro a dodici anni non solo toglie la salute, ma toglie la scuola e – come fa notare don Milani – una domenica sì e una domenica no, toglie anche la messa, fa perdere gli amici, dormire quando gli altri vegliano e vegliare quando gli altri dormono. E inoltre Mauro non è assicurato. Non ne avrebbe neanche l’età, ma bisogna dire che a Prato c’erano allora non più di dieci libretti su cento. Il racconto è puntiglioso e minuzioso.
È questa storia che misura e giudica l’annuncio dei preti e della Chiesa.
Tutti si devono misurare sullo scandalo che vive Mauro, di fronte a un padrone che ogni giorno lo espropria della sua storia e della sua vita, e con la Chiesa che sembra sostenere il Baffi, il padrone di Prato e della vita dei ragazzi di San Donato.
La posta in gioco è la vita cristiana di Mauro e di tutti coloro, che, come Mauro, vivono lo scandalo del licenziamento dalla fabbrica. Continua Milani: «L’ho perfino in grazia di Dio, perché, venendo giù stamani in bicicletta, mi ha chiesto l’assoluzione. Lui vuole stare sempre in grazia di Dio. Stamani tanto più che s’andava incontro alla croce. Ma ora che risale verso casa con la croce ben confitta sopra le spalle, ora mi assale il terrore che domani mattina, se qualcosa fosse andato male, non verràà più a cercarmi come ha fatto fino ad ora. Che diserti la Chiesa.
E poi la scuola popolare e poi a forza di non vederlo più, piano piano, mi diventi come altri che ho in cuore e che non vedo che di lontano, e che non sanno nulla di me, né io di loro. Mauro estraneo? Mauro come Romolino? Come Luciano? Mi viene un brivido per tutta la persona».
Qui davvero c’è tutta la forza profetica di don Milani, che egli misura nella vita concreta e quotidiana dei suoi ragazzi. La sua preoccupazione, prima e ultima, non è la tessera di un partito o di un sindacato, l’adesione ad uno schieramento, ma che Mauro, alla fine di questo viaggio, si trovi fuori della Chiesa: “che diserti la Chiesa”, non la Chiesa dell’interesse politico, delle elezioni, delle organizzazioni ricreative, ma la Chiesa che perdona i peccati, la Chiesa del Vangelo, dei sacramenti, che questi ragazzi incontrano nel cappellano prima e nel priore poi.
A Milani interessa non la politica, ma la vita cristiana dei suoi figli, il loro incontro con la parola e i sacramenti. E per conseguire questo, bisogna ascoltare il grido di giustizia che nasce dalla loro vita e dalle violenze che subiscono in fabbrica ad opera del Baffi, il padrone che sembra avere in mano tutta Prato e che impone la sua legge del lavoro, fatta di cottimi e di licenziamenti.
Non vergognarsi del Vangelo
Rimane da cogliere questa straordinaria novità di don Milani, che indica una vera e propria linea di riforma della Chiesa, fondata sulla Parola di Dio e sulla storia dei poveri, che non sono delle categorie teoriche, ma hanno il volto concreto di Mauro.
Continua don Milani, nella lettera a don Piero, con la tenerezza di un padre che parla del figlio: «Per ora, Mauro è ancora qui, accanto a me. Me lo sono potuto tenere sempre vicino, parlargli di Dio e di purezza, nutrirlo di assoluzioni e comunioni. Ma tutto questo solo perché è giovane. Diciassette anni sono pochi. Ma quando se n’è viste tante cominciano a pesare quanto i trenta di un signorino. Domani, quando ne avràà 18 o 19, sarà come ne avesse 40. Odierà tutto e tutti e me suo prete, e il Papa e il Cristo nostro Signore. Per ora mi crede ancora, se gli dico qualcosa. Ma se mi chiede ragione di quello che fa il Baffi, di quello che fa il governo cattolico, che gli posso dire? Potrò ingannarlo? Potrò dirgli che attenda? Potrò dirgli che il Baffi ha diritto per diritto naturale? Che la celere ha il dovere di difendere la legge pagana, che questa legge è quella che Dio ha posta? Io non posso dirgli queste cose. Non mi crederebbe. E ha ragione. E io, Piero, non posso non essere creduto dal mio Mauro. Lui n’ha bisogno di me suo prete per mille altre cose troppo più grandi di questa stupida cosa del lavoro e del governo».
E poi bisogna porsi la questione della fede di Mauro, il vero e, in un certo senso, unico obiettivo di don Lorenzo, del suo ministero e della sua scuola. Altro che classismo e politicismo. Semplicemente il Vangelo. La stessa scuola, che pure in Milani ha un grande rilievo, si pone al servizio di questo disegno evangelico. Il punto decisivo non è il sostegno a un partito, non è una tessera, non è il conflitto del priore con il Baffi, ma la fede di Mauro.
La lettera a don Piero prefigura quel Vangelo dei poveri, dei piccoli, dei montanini, che è la missione stessa di don Milani: la sua vita con i suoi ragazzi, il suo vivere il Vangelo con loro e in mezzo a loro, diventando profezia nel tempo.
Milani intuisce e denuncia una crisi del clero, che diventa crisi della Chiesa, che era già in atto in modo consistente e che portava i preti a cercare soluzioni pastorali sbrigative, come il pallone, la televisione, la cosiddetta “pastorale della ricreazione”, distraendo i ragazzi dall’essenziale e cioè da una ricerca vera e umile dell’evangelo.
Milani chiama i giovani a compiere scelte consapevoli e ad avere una vita spirituale intensa, sostenuta dai sacramenti e a percorrere con coraggio la responsabilità di essere cristiani e cittadini adulti. Per questo l’insistenza e sulla parola e sulla scuola.
La crisi della Chiesa
È difficile essere lontani dalle tesi di Milani sulla Chiesa italiana, che racconta nella lettera a don Piero: «Per un prete, quale tragedia più grossa di questa, potrà mai venire? Essere liberi, avere in mano Sacramenti, Camera, Senato, stampa, radio, campanili, pulpiti, scuola e con tutto questa dovizia di mezzi divini e umani, raccogliere il bel frutto di essere derisi dai poveri, odiati dai più deboli, amati dai più forti. Avere la Chiesa vuota. Vedersela svuotare ogni giorno. Sapere che presto sarà finita per la fede dei poveri. Non ti viene fatto perfino di domandarti se la persecuzione potrà essere peggio di tutto questo?».
Un’analisi senza sconti, ma secondo verità, che denuncia la sterilità di una Chiesa attivista e pelagiana.
La Pira ha parlato spesso di città sul monte, di Firenze come città sul monte, come luogo di attrazione di popoli e di genti, perchéé illuminata dalla grazia. Ma anche Barbiana per don Lorenzo era la città sul monte, la città dei montanini e degli operai. E da Barbiana, là dove avviene la visita di Dio, viene il grande appello alla Costituzione e alla democrazia, e al tempo stesso l’urgenza del Vangelo, inaugurata dal tempo del Concilio.
Tutta la questione del sociologismo milaniano è più effetto di una incomprensione che di un dato reale. Il prete “milaniano” non è egemonizzato dalla politica, ma dalla possibilità di trasformare, in forza della Parola e della preghiera, la vita del prete e del parroco, il cui ministero del Vangelo e dei sacramenti deve avvenire al cuore della povera gente, per usare una formula lapiriana.
Questo impone la sincerità del linguaggio, che non corrisponde all’arroganza mondana, ma all’umile verità del Vangelo. Qui si pone la grande scommessa sulla formazione dei seminaristi e poi dei preti: una formazione sulla parola del Vangelo, che cambia il cuore e la vita dei suoi ragazzi.
L’eredità
Don Lorenzo lascia una eredità che anticipa il Concilio sul tema della pace, dell’impegno pubblico dei credenti e sulla formazione dei seminaristi e dei preti. Tutto rimanda al Vangelo e ai sacramenti, con particolare attenzione al perdono.
Barbiana non è stato un luogo di solitudine, perché c’erano il Signore e i poveri, i ragazzi montanini, a cui don Lorenzo si consegnava e si donava trecentosessantacinque giorni l’anno, senza riposo e senza risparmio.
Il piccolo monte di Barbiana è diventato il luogo di un grande annuncio sulla Chiesa e sulla democrazia italiana: don Lorenzo indica la via di una Chiesa povera e dei poveri. Dio è passato a Barbiana per confermare tutto.
Ancora oggi molti, in gruppi, da soli, nel silenzio, salgono a Barbiana, alla periferia del mondo, ad ascoltare questo annuncio, che risuona oggi come ieri e chiama chi arriva nella Chiesa, nella scuola, al cimitero, a cercare i segni di don Lorenzo: in primo luogo i poveri, i suoi ragazzi che sono ormai molto anziani, e che non si stancano di salire; e poi la parola della pace e del perdono e infine il sogno della Chiesa dei poveri, di una Chiesa che non si difende, che non condanna, ma sa vivere la misericordia del Signore.
Milani, San Donato e Barbiana
La pubblicazione dell’opera omnia di Lorenzo Milani, presso i Meridiani di Mondadori, appare il modo più adeguato di dare testimonianza della sua vita, del suo impegno civile e spirituale, della sua coerenza evangelica e della sua esemplarità di fronte al mondo. È appena trascorsa la memoria della sua morte il 26 giugno 1967.
I due volumi dei Meridiani ci permettono oggi di studiare ancora di più e meglio il suo contributo originale alla riforma della Chiesa e della societàà italiana, dentro quel grande alveo che tocca la Chiesa e la società fiorentina, dentro e oltre la fine della guerra.
Un convegno, sempre promosso dalla Fondazione per le Scienze Religiose, qualche settimana prima del convegno della Chiesa italiana a Firenze, usa una formula assolutamente significativa: “i folli di Dio”, per indicare una stagione di cristiani e di preti sotto il ministero del cardinale Dalla Costa.
E sono “folli di Dio” don Giulio Facibeni, don Raffaello Bensi, Giorgio La Pira, don Barsotti, don Bartoletti. Dentro questo fiume sta don Lorenzo Milani, che nel 1947 diventa cappellano a San Donato di Calenzano e inizia il suo ministero radicale e coraggioso, in una ricerca senza limiti dell’incontro con Gesù, non solo di don Lorenzo ma anche dei suoi ragazzi, che cominciano a frequentare la sua scuola, che diventa il grande strumento di evangelizzazione dei suoi ragazzi e al tempo stesso della loro emancipazione nella democrazia.
Papa Francesco, con la recensione fatta ai Meridiani e con le parole dette nella sua visita a Barbiana, sottolinea la qualità spirituale di don Lorenzo, il suo essere prete, la sua fede, che lo spingevano a vivere il Vangelo e al tempo stesso a farsi carico di quella domanda di eguaglianza che i suoi ragazzi apprendisti di Prato ponevano ogni giorno.
Rileggendo oggi don Lorenzo, con uno strumento così qualificato, si comprende che la questione sociale (la vita di Mauro) è la questione pastorale: la vita di Mauro e dei suoi ragazzi uno ad uno. Questo vale a San Donato, questo vale a Barbiana. Si è discusso molto del classismo di don Lorenzo: in realtà ciò che sta al primo posto è la salvezza dei suoi ragazzi, non solamente la politica o la sociologia.
La parola apre il cuore di questi ragazzi, che attraverso lo studio diventano protagonisti di diritti e cittadini a tutto tondo. Don Lorenzo non solo legge il Vangelo, ma con altrettanta passione legge con i suoi ragazzi la Costituzione. Ecco l’attenzione alla Costituzione, come pietra angolare di ogni ragionamento sulla eguaglianza, che ha nella Costituzione il suo fondamento.
Questo riferimento alla Costituzione colloca don Milani nella grande sfida dei “professorini” (a partire da Dossetti, Lazzati, Fanfani e La Pira), che generano la Costituzione, che vuole rispondere alla grande sfida del rinnovamento sociale e politico del paese. Don Lorenzo sta in questo alveo.
Amico di La Pira, segue Dossetti, scrive a Mazzolari, incontra Gianni Meucci.
Il discorso sull’eguaglianza in Milani diventa un discorso sulla Costituzione, che ne pone le fondamenta. E’ questo cattolicesimo democratico che diventa il vero progetto culturale sul Paese, capace di trovare un punto di compromesso per unirlo.
Da San Donato il riferimento alla Costituzione arriva alle tre lettere di don Milani: la lettera agli ex cappellani, nella lettera alle giudici e poi nella lettera ad una professoressa. Questo avviene in modo vigoroso.
Nella lettera agli ex cappellani, l’art. 11 e l’art. 2 (“La difesa della patria è un sacro dovere del cittadino”) diventano il criterio decisivo su cui misurare le molte guerre combattute dall’Italia. Nella lettera ai giudici, la Costituzione è citata 7 volte come documento normativo e fontale, 4 volte l’art.11 (“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa della libertàà degli altri popoli”).
Infine, nella lettera ad una professoressa, di nuovo e in modo significativo la Costituzione è citata 6 volte. Tra l’altro si dice: «A volte la mamma di Giampiero (ndr alla professoressa) disse: Eppure mi pare che il bambino, da che va al doposcuola comunale, sia migliorato tanto. La sera, a casa lo vedo leggere. Leggere? Sa cosa legge? La Costituzione! L’anno scorso aveva a capo le ragazzine e quest’anno la Costituzione. Quella povera donna pensò che fosse un libro sporco. La sera voleva far cazzottare Giampiero dal suo babbo».
La parola apre al Vangelo e la parola apre alla Costituzione. Ecco, senza la parola non c’è il Vangelo e non c’è la Costituzione, non c’è la grande battaglia culturale e politica contro le diseguaglianze. Un paese diseguale è destinato a morire. Allora riprendere lo studio sulle parole di Don Milani significa contribuire a costruire una paese migliore, ma – io credo – anche una Chiesa migliore.
Oggi la parola di don Lorenzo ci permette di costruire una nuova e più rigorosa cultura della pace, partendo dalle vittime e partendo dai civili. Già nel 1965 la condanna della guerra e della guerra contro i civili è senza se e senza ma. Su questo don Lorenzo ha preceduto molti, chiamando all’obbedienza a caro prezzo per salvare i civili: una guerra che è guerra contro civili è una guerra che va ripudiata e condannata. La guerra va ripudiata, perché pone i civili al centro del suo potere distruttivo.
Ecco la sfida di don Lorenzo: una nuova cultura della pace, che rifiuti la guerra giusta e la giustificazione della guerra. Ecco la vera obbedienza, che è l’obbedienza alla legge di Dio o – per i non credenti – alla legge alla coscienza.
Ecco il profeta che si fa maestro e il maestro che si fa profeta. Al centro di questa nuova cultura stanno le vittime, i civili. Ecco la modernitàà di don Lorenzo, dalla scuola alla pace. Parlare del priore è parlare del futuro, che mai come oggi ha bisogno di profeti e di maestri.
Ecco l’esemplarità di don Lorenzo, di cui il Papa ha parlato a Barbiana. Di questa esemplarità ne abbiamo bisogno oggi, ne avremo bisogno domani. L’umanità cerca il Vangelo e don Lorenzo ha continuamente cercato i suoi figli, perché rinnovassero la Chiesa e il paese, secondo uno stile di piccolezza, di mitezza, senza cercare il potere che imprigiona, ma secondo lo Spirito che tutto rinnova.
Salire a Barbiana
Il 26 giugno del 2017 abbiamo celebrato il cinquantesimo anniversario della morte di don Lorenzo Milani, prete della diocesi di Firenze, profeta e maestro dell’incontro di Gesù con i poveri.
In questo prete Dio ha visitato la piccola Chiesa di Barbiana, seminando la parola, accogliendo gli ultimi. Davvero il piccolo gregge del Vangelo, rappresentato dai ragazzi montanini, per cui aveva dato tutto.
Don Lorenzo ha speso tutta la sua vita per i montanini della sua comunità, senza eccezioni, senza privilegi, in un impegno totale e assoluto. Ha insegnato alla Chiesa e alla società italiana il Vangelo e la Costituzione, davvero le due lampade, che a Barbiana sono state sempre accese nel cuore di questo prete e dei suoi ragazzi.
In Milani i poveri non sono categorie sociali, ma persone, ognuno con il suo nome. In “Esperienze pastorali” i ragazzi sono sempre chiamati ad uno ad uno, ciascuno con la sua storia e il suo dolore e la sua fatica. Don Lorenzo li ha amati sempre nella concretezza della loro storia e della loro vita. Li conosceva uno per uno e dava la sua vita per ciascuno di loro. Fino alla fine ha insegnato, consumando tutte le sue forze per i montanini della sua parrocchia.
Ha predicato la pace come obbedienza al Vangelo e alle vittime, secondo uno stile che sapeva riconoscere la tragedia dei conflitti e le urgenze del Vangelo. La sua lettera agli ex cappellani militari scuote la coscienza di una Chiesa italiana, ancora pigramente prigioniera della teologia della guerra giusta.
La lettera ai Giudici è il suo capolavoro sulla obbedienza cristiana, che mette al primo posto l’obbedienza al Vangelo e alla coscienza rispetto agli ordini militari. I cristiani sono chiamati sempre a ubbidire al Signore Gesù e non ai generali o ai politici, quando impongono ordini che contraddicono il primato di Dio e della coscienza.
Barbiana e la Chiesa dei poveri
Barbiana è la Chiesa dei poveri, è la sua icona, è la Chiesa delle periferie esistenziali e storiche che domandano una nuova presenza evangelica, che ponga gli scartati al centro dell’agire di Dio, della sua visita e della sua misericordia.
Salire a Barbiana è seguire il Signore che in don Lorenzo ci ha visitato, ci visita e ci chiama. La canonica, la Chiesa, il cimitero sono i segni del mistero di don Lorenzo, che ci vengono incontro ancora in questo luogo così speciale e unico del Mugello.
Qui è stato mandato don Lorenzo e da qui la sua parola e la sua testimonianza sono partite per arrivare alle tante Barbiane del mondo, luoghi sempre di Dio e dei poveri.
La riforma della Chiesa in Milani parte dei poveri, dai loro volti e dalle loro vite, dai ragazzi montanini di quelle colline e dallo studio che essi fanno delle parole, senza le quali non hanno futuro. Incontrare le parole, conoscerle, farne strumento dei diritti sociali, ecco la predicazione quotidiana di don Lorenzo.
Nasce da lì la sua idea di catechismo, il suo incontro quotidiano con Gesù lungo le vie della Palestina e l’accoglienza del Vangelo. Dunque una Chiesa di poveri e di montanini alla sequela del Gesù povero e pacifico.
La riforma della Chiesa secondo don Lorenzo
Questa riforma della Chiesa domandava seminaristi e preti non dediti a perdere tempo, giocando al pallone, leggendo la Gazzetta dello sport, ma studiando ora per ora, giorno per giorno, il valore delle parole per difendere i diritti e per vivere il Vangelo.
La sua critica alla “pastorale della ricreazione” nasceva dalla perfetta consapevolezza che un ragazzo montanino non poteva perdere tempo a inseguire un pallone da calcio, che lo distraeva dal conoscere quotidiano delle parole.
Papa Francesco indica alla Chiesa italiana, dopo il silenzio del convegno di Firenze, di ripartire da Barbiana, abbandonando ogni interesse politico e di potere, cercando solo il Vangelo e nient’altro.
Il papa presenta don Lorenzo come il modello della Chiesa dei poveri e delle periferie, dei preti, che conoscono l’odore delle pecore, che sanno entrare nella casa e nella vita dei più piccoli, dei disabili e dei feriti. Salire a Barbiana significa riconoscere che Dio è disceso nella vita delle nostre comunità. Secondo una incarnazione fino alla morte.
Bisogna salire a Barbiana per chiedere perdono, avendo immaginato una Chiesa forte, piena di principi non negoziabili, piena di legami di potere per rassicurare le nostre paure. Chiedere perdono di aver avuto paura del Vangelo. Milani è sepolto a Barbiana e compra la sua tomba nel piccolo cimitero il giorno dopo che è salito in questa parrocchia sperduta del Mugello nel dicembre del 1954. Dunque una scelta per sempre, non secondo i calcoli del carrierismo ecclesiastico.
Ecco la radicalità del sacerdozio di don Lorenzo Milani, che ai suoi ragazzi – ormai in punto di morte – intende mostrare come muore un prete cristiano. E la misura dell’essere cristiano del prete Milani sta in questa vita consegnata a Dio e ai poveri.
PS:
Ho incontrato una sola volta don Milani, il 19 marzo 1965 a Barbiana. Con tre amici sono salito sul monte Giovi per conoscerlo, nel crogiolo delle polemiche della lettera di risposta agli ex-cappellani militari, che gli era costata la denuncia al magistrato per apologia di reato.
Ci accolse con semplicità. Erano intorno al tavolo di scuola. Egli mi fece sedere alla sua destra, mentre alla sua sinistra stava seduta Barbara, una ragazza poliomielitica in carrozzina.
Don Lorenzo ci racconta la testimonianza degli obiettori di coscienza. Poi cominciò a farci domande per capire il motivo per cui Lucca era politicamente bianca in una regione rossa. Catturati da Hegel, mostrammo di non conoscere il perché di quanto chiesto. Don Lorenzo in modo fermo ci mise alla porta: non poteva tollerare che dei giovani universitari presuntuosi con la loro ignoranza facessero perdere tempo ai suoi ragazzi.
Don Milani usava i suoi ospiti per insegnare ai suoi ragazzi che erano al centro di tutto. Senza sconti anche nei confronti di un giovane studente disabile come me.
In questo don Lorenzo era maestro per i suoi ragazzi: anche nella sua severità per noi giovani presuntuosi che studiavamo la metafisica e trascuravamo la storia concreta della nostra città.
Ci ritirammo in buon ordine, avendo cominciato a imparare la lezione.
Un incontro che è rimasto sempre in me e nella mia vita.
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