Clima, malattie e civiltà
Quando Galeno arrivò a Roma, nel 162 d.C., era il più famoso medico dell’Impero romano. Un impero che andava dal Vallo di Adriano in Britannia (a Nord) fino alla Numidia e all’Egitto (a Sud), dall’oceano (a Ovest) fino ai fiumi Reno, Danubio ed Eufrate (a Est). L’imperatore governava 75 milioni di persone, un quarto della popolazione del pianeta, mantenendo pace e sicurezza grazie a 30 legioni (160 mila uomini). I cittadini romani non pativano la fame (e neanche la sete), grazie a una formidabile organizzazione per la produzione e distribuzione di derrate alimentari, con acquedotti, strade e reti commerciali efficienti, banche e reti di credito, porti, infrastrutture e ben mille città intorno al Mare Nostrum, il Mediterraneo.
Malattie
Perché allora proprio nel periodo dell’arrivo di Galeno cominciò quel declino che avrebbe portato, nel 410 d.C., al saccheggio della città eterna da parte dei “barbari” Goti? Una catastrofe che non accadeva da 800 anni. Il fatto è che Roma aveva due nemici che non conosceva: il clima e le malattie. La città eterna si era infatti sviluppata sulle rive del Tevere su terreni acquitrinosi e paludosi, ambiente ideale per lo svilupparsi di malattie infettive tipo malaria. Anche tubercolosi e lebbra erano diffuse. I romani, infatti, non avevano idea di cosa fossero i germi, della necessità di lavarsi le mani e di conservare correttamente gli alimenti.
Il risultato è che erano «malaticci», di bassa statura, con un picco di mortalità, in estate, per diarrea e malattie gastrointestinali. La vita media era di 30 anni. Le ragazze si sposavano a 15 e facevano molti figli: la moglie di Marco Aurelio, per esempio, ne diede alla luce 14. Era una società giovanissima, con una grande crescita demografica e una notevole urbanizzazione.
Proprio lo sviluppo delle città portò al primo disastro sanitario della storia, la “peste antonina”. I romani erano abituati alle epidemie, già una decina avevano colpito negli ultimi 200 anni, ma questa volta l’estensione e la violenza furono tali da lasciare tutti sconvolti. Il virus (forse vaiolo) arrivò dall’India e dalla Cina, sulle navi che portavano merci ai porti romani del mar Rosso. Da qui, lungo le reti commerciali, la prima epidemia globale della storia dilagò nell’impero uccidendo 7 milioni di persone, uno su 10. Galeno cercò invano un rimedio, finché fu costretto anche lui a fuggire dalla capitale impestata. L’impero riuscì a riprendersi, ma un secolo dopo, proprio mentre si festeggiavano i mille anni dalla fondazione di Roma, un’altra pestilenza ancora più devastante diede il colpo di grazia a un impero indebolito da disordini politici e siccità.
Clima
Bisogna dire subito che i romani furono molto fortunati: dal 250 a.C. al 150 d.C. godettero di ben 400 anni di clima stabile, mite, piovoso e caldo, ottimale quindi per coltivazioni, sviluppo demografico e commerci. I vulcani se ne stettero tranquilli, senza inquinare l’atmosfera con emissioni capaci di limitare l’energia in arrivo dal Sole, il quale ebbe un periodo di stabilità. Il contesto fu così favorevole che gli studiosi l’hanno chiamato Optimum climatico romano, considerando che invece il nostro pianeta è sempre stato soggetto a «violente oscillazioni del sistema climatico globale» (Kyle Harper, Il destino di Roma, Einaudi). Alla fine di questo periodo ottimale, l’avanzare del deserto del Sahara, una volta verdeggiante, cominciò a mettere in crisi il “granaio di Roma”, cioè le coste dell’Africa settentrionale. I romani, poi, peggiorarono la situazione senza saperlo, tagliando le foreste e quindi contribuendo alla diminuzione delle piogge. La potenza militare e organizzativa romana nulla poteva contro clima e malattie: furono questi due nemici invisibili a distruggere l’impero, molto più dei “barbari” che premevano alle frontiere. Come spiega Kyle Harper nel suo libro, «le forze dell’evoluzione sono in grado di cambiare il mondo in un attimo». E distruggere le civiltà.
Oggi
Rispetto ai romani, noi abbiamo il vantaggio di conoscere bene entrambe le minacce. Abbiamo imparato a combattere le malattie, passando da 30 a 80 anni medi di vita, e sappiamo come limitare il riscaldamento del pianeta diminuendo il ricorso alle fonti più inquinanti. Invece di litigare, allora, sui vaccini o sull’opportunità di incendiare l’Amazzonia o su quanto sia significativo il contributo delle attività umane al cambiamento climatico in atto, cerchiamo di preoccuparci, tutti insieme, della sopravvivenza della nostra civiltà. Non abbiamo molto tempo a disposizione.