Clemente Vismara, un cuore per tutti

Lo si potrebbe definire “il santo dei bambini” o “il santo della gioia” o “il santo della povertà” o “il santo della carità verso tutti” o “il santo della Provvidenza”: tutte definizioni che, secondo il punto di vista da cui si guarda la sua persona, tentano di definire Clemente Vismara, missionario del Pime, beatificato il 26 giugno 2011 a Milano[1]. [1]Le notizie e i testi dell’articolo sono state prese da: P. Gheddo, Prima del sole, l’avventura missionaria di P.Clemente Vismara, EMI, Bologna 1998; C.Vismara, Più in alto del sole (testi scelti), EMI, Bologna 2011. Ma soprattutto dalla Positio super vita, virtutibus et fama sanctitatis (P.N. 1982) per la beatificazione di P.Vismara, Congregatio de Causis Sanctorum, Roma 2001.  
Clemente Vismara
 Era nato nel 1897 ad Agrate (Milano), in una parrocchia appartenente a questa grande diocesi italiana ed era partito per la Birmania nel 1923, dopo aver combattuto nella Prima Guerra Mondiale.

 

In missione

 

Un anno dopo è condotto alla sua prima missione, Mong Lin, sulle montagne al confine col Laos. Sua abitazione è un capannone di fango e paglia, col pavimento in terra battuta, senza nessuna suppellettile, né tavolo, né sedia, né letto. Tutt’intorno, foresta fitta nella quale si entra a stento. Vismara commenta col suo stile umoristico: “Entrando la prima volta in quella capanna mi sentii mancare il fiato: buia, umida, col pavimento in terra battuta pieno di animaletti. Mi sembrava quasi peggio che al tempo della grande guerra: ma questa guerra l’avevo voluta io! L’ambientazione fu durissima, ma il cuore contento. Mi dicevo sempre: tu che hai fatto le battaglie sulle montagne, tu che sei marcito nel fango della trincea, vuoi dire che non sei capace di adattarti alla Birmania?”.

 

E si è adattato, eccome! È vissuto 65 anni in situazioni climatiche, ambientali e culturali difficili, nella più assoluta povertà, ma senza mai lasciarsi abbattere dalle difficoltà, anzi, superandole con la sua fede condita di allegria. Battistina Sironi, religiosa delle Suore di Maria Bambina, che ha collaborato con lui per 30 anni, ha testimoniato: “Era sempre allegro. Quando aveva dei fastidi cantava nella sua casa. Allora noi suore chiamavamo i bambini e li portavamo in chiesa a pregare per il padre Clemente, che aveva grane grosse”.

 

Lo stesso padre Clemente ne dà il motivo: “Noi qui si vive la vita dei poverelli di Cristo, ma si prova contentezza e allegria da Paradiso e la preoccupazione del domani è relativamente leggera, giacché l’opera non è nostra, è del Signore che ci ha voluto mandarci qui, certo ce ne vorrà dare i mezzi, altrimenti bisogna piantarlo in asso. Un po’ la colpa è nostra e della nostra impazienza di voler vedere sorgere subito le cose e far qualche cosa. Il Signore invece è di parer contrario e fa le cose adagio, adagio e fa crescere la pianta in modo invisibile, cioè secondo natura”.

 

Vismara si è trovato quasi sempre solo, senza compagni nella sua missione: il campo di lavoro affidato al Pime era immenso e gli operai pochi. Però ha avuto validissime collaboratrici nelle religiose, con le quali aveva un rapporto di profonda sintonia nell’impegno soprattutto con i bambini e ragazzi, e nei catechisti, responsabili delle comunità cristiane nei villaggi. Sono stati due i fronti della sua attività missionaria: le visite ai villaggi e l’amore per i poveri, soprattutto gli orfani e i bambini abbandonati.

 

Visitando i villaggi

 

Delle prime dice lui stesso: “Fin dall’inizio il mio apostolato è stato tutto un girare, a cavallo o a piedi, per i villaggi. Avevo con me tre orfani, li tenevo sempre assieme, li educavo e loro i aiutavano in tante cose. Se c’era da mangiare, mangiavamo tutti; se c’era poco, prima mangiavano loro e poi io. Andando nei villaggi portavo un po’ di medicine e poi cercavo do aiutare la gente in tanti modi: falegnameria, agricoltura, igiene, meccanica, medicina…Quando avevo finito le medicine, il denaro e il cibo, tornavo a casa, mi riposavo un po’, e ricominciavo. Tutto era fondato sull’amicizia personale: il farsi conoscere, conoscere la gente, per famiglia, villaggio per villaggio, dire a tutti che io volevo aiutarli e fare il possibile per aiutarli davvero. Intanto, tutti vedono che sei un prete e, quando hanno preso confidenza, ti chiedono qualcosa del tuo Dio. Quante volte, alla sera, seduti attorno al fuoco, ho raccontato le storie dell’Antico Testamento e del Nuovo Testamento, di Gesù Cristo, del Papa e via dicendo. Allora, a poco a poco, prima i più poveri, poi gli altri, decidono che la religione del Padre è quella buona e chiedono di essere istruiti nella fede”. E conclude: “La mia linea di comportamento è sempre stata questa: da un lato essere contento di tutto, dall’altro lodare quello che avevano, i loro cibi, la loro lingua, le capanne, le usanze, almeno quelle che non fossero decisamente contrarie alla legge di Dio. E poi fare felici gli infelici”.

 

Una suora sua collaboratrice descrive: “Ha fatto una vita eroica, sempre in giro nei villaggi, dove si dorme male, si mangia peggio e i pericoli sono tanti. Ha costruito decine e decine di scuole e cappelle, ha insegnato alla gente a fare le risaie e ad irrigarle artificialmente, a coltivare il baco da seta, a fare i mattoni e la calce, a costruire case in muratura; li ha istruiti nella falegnameria e nella meccanica, ha dato l’esempio coltivando i primi orti della zona. Ha lavorato fino all’ultimo mese di vita; a 91 anni visitava ancora i villaggi. Quando tornava a casa portava sempre alcuni bambini e bambine per l’orfanatrofio. Non rifiutava mai nessuno. ‘Padre – gli dicevo – non prenda più ragazzi e ragazze. Ne abbiamo già troppi’. Per tutta risposta chiedeva. ‘Ha mangiato oggi?’. ‘Sì, ho mangiato’. ‘Allora stia tranquilla, che mangerà anche domani. Cosa vuole di più?’”.

 

Vismara spiegava il perché del suo agire: “Oggi si parla di ‘scelta preferenziale dei poveri’ (leggo anch’io giornali e riviste che mi giungono dall’Italia). Per me non era una scelta, perché non avevo scelta. All’inizio, o prendi i poveri o non prendi nessuno. Non ho quasi mai convertito gente importante e ricca, ma i rifiuti del mondo pagano: relitti umani, orfani ammalati, bambini abbandonati, gobbi, storpi, vedove e miserabili e chi più ne ha più ne metta. La mia preferenza fu sempre per gli orfani, dato che su questi monti, un po’ per la guerriglia, un po’ per la miseria, la fame, le malattie, ce ne sono in abbondanza. Uccellini senza nido, ai quali io ne offrivo uno. Sono il mio sole, la mia speranza, il mio futuro. Che mi serbino più o meno riconoscenza, poco m’importa: se stanno bene loro, sto bene pure io”.

 

Il tesoro del missionario

 

Per loro ha dato tutto se stesso: ha costruito due orfanatrofi a Mong Lin e a Mong Ping (la sua seconda missione, dal 1955 al 1988) con circa duecento bocche da sfamare in media. Per loro e con loro lavorava nell’orto e nel giardino e, con l’aiuto di amici di tutto il mondo coi quali stava in contatto epistolare continuo (scrivendo di notte al lume di candela), comprava il riso e la carne. Voleva che i bambini, spesso denutriti e ammalati, fossero alimentati il meglio possibile. “Non mangiava lui per dare agli altri e qualche volta ci spingeva a farlo anche noi”, confessa suor Battistina. Questo suo stile di amare provocava naturalmente la Provvidenza: “Io i conti non li tengo, né dei soldi che escono né di quelli che entrano; lavoro, aiuto e faccio quello che posso e del resto mi preoccupo poco. La Provvidenza c’è per tutti e Dio manda abiti secondo il freddo”, spiegava. Amava ripetere una frase caratteristica del suo linguaggio arguto: “Clemente, con l’aiuto di Dio devi cavartela da solo”.

 

Il suo metodo educativo era evangelico: “Io lavoro per Dio. A me basta amarli come li ama Dio. E se se ne andranno, non importa. Basta che siano brave persone, che credono in Dio, che pregano e cercano di essere buoni”. Più che le teorie, valeva la sua vita donata, con questi risultati: “Un orfanello si avvinghia al suo missionario come una sanguisuga e non lo abbandona più. Si immagina che il suo missionario sia onnipotente. Se si ammala, lo supplica: ‘Padre, fammi guarire, mi fa tanto male, io starò sempre con te, tu sei mio padre e mia madre’. Non è da meravigliarsi se quei due cuori formano un cuore solo. Io ho quel che ho donato”.

 

La sua priorità educativa era il lavoro, perché la cultura di quelle etnie rifiutava il lavoro fisico, limitando la crescita umana e spirituale delle persone. Vismara era arrivato alla conclusione che “soppesati i pro e i contro, esaminato l’esaminabile e sperimentato il possibile, da pover’uomo mi sono convinto che la cosa principale, che racchiude tutte le altre, anche quelle spirituali, è che debbo insegnare ai miei ragazzi a lavorare. Tutto il resto delle perfezioni verrà da sé. Lavoro e Vangelo qui sono sinonimi”. Si appoggiava anche su una ragione “teologica”: “Il cristianesimo è l’unica religione che ha il fondatore che è stato un lavoratore, un falegname”. E insegnava dando l’esempio, lavorando duramente lui stesso.

 

Eppure (o per questo) ha fondato quasi dal nulla otto distretti (parrocchie) con centinaia di comunità, ha amministrato qualche migliaio di battesimi, ha suscitato parecchie vocazioni sacerdotali e religiose. Perché era uomo innamorato di Dio, che pregava molto e faceva pregare, che annunciava instancabilmente il Vangelo, che amava tutti senza distinzioni, che ha passato 65 anni in missione, rientrando una sola volta in Italia dopo 34 anni di Birmania. In occasione dei suoi ottant’anni scriveva: “Tra vittorie e sconfitte mi trovo sul campo da 55 anni e sempre battagliero. La vita è fatta per esplodere, per andare più lontano. Se essa rimane costretta entro i suoi limiti non può fiorire, se la conserviamo solo per noi stesi la si soffoca. La vita è radiosa dal momento in cui si comincia a donarla. Vivere solo la propria vita è asfissiante. Coraggio, padre Clemente, Iddio ti conceda di perseverare sino alla fine. Rimani e fiorisci dove Dio ti ha piantato”.

 

Padre di tutti

 

Vismara è nato 65 anni prima del Vaticano II e la sua teologia della missione era tradizionale, semplice. Annunciava a tutti Gesù, però “non forzava nessuno a diventare cattolico, ma rispettava tutti, perché la gente deve essere convinta ed è importante rispettare le convinzioni e la fede di ognuno”, riferisce un catechista. Il suo metodo missionario era l’amore. Al suo funerale (morì il 15 giugno 1988) è accorsa una folla enorme, superando enormi distanze e i pericoli delle strade. C’erano cattolici, protestanti, animisti, buddisti e musulmani e “tutti piangevano ‘il padre’, perché era stato il vero padre di tutti”, ha testimoniato suor Mary Paul, birmana.

 

Come miglior argomento in questo senso cito – e concludo – due testimonianze di non cristiani, che hanno voluto presentarsi spontaneamente a deporre al processo di beatificazione. “Ha dato la sua vita per la missione tra noi – ha testimoniato Zam Nup Bi Bi, musulmana –, lasciando tutti i comodi dell’Italia, per condividere la nostra povertà e la nostra sofferenza. Aveva offerto la sua vita per Dio e diceva sempre di pensare a Dio e di fare tutto per Dio. Diceva questo anche a noi musulmani, perché siamo uniti nel Dio di Abramo. Non faceva differenze di religione. Quando c’erano le nostre feste, veniva a farci gli auguri ed a farci un regalo, e così faceva mio padre quando c’erano le feste dei cristiani”.

Ricordo che lo incontrai per la prima volta durante le feste per l’inizio dell’anno cinese -racconta U Sai Lane, buddista –. Lo invitammo a fermarsi con noi ed egli accettò volentieri. Da allora divenimmo subito amici. Padre Vismara era capace di fare tutto con tanta allegria e fece contenti tutti. In quell’occasione, inoltre, egli distribuì le medicine che aveva portato con sé, che sono una cosa molto importante e preziosa per noi. Noi ci stupimmo che le desse così volentieri anche a noi buddisti… Ho visto Padre Vismara sempre sorridente aiutare gli altri senza distinzione ed avere una buona parola per tutti, senza mai pretendere da alcuno di farsi cattolico e senza alcuna pressione in questo senso”.

 

Permettetemi una conclusione bis, perché non riesco a trattenermi dal fare quest’ultima citazione sua: “I pagani esigono la pelle, nient’altro che la pelle, tutta la pelle, altrimenti non ci credono affatto… Un missionario che non ama, che non dà la propria vita, non vale, è inutile, è niente. Volutamente mi pongo nel numero dei ‘Pellem pro pelle’ tutti i giorni, un brandello al giorno, con animo sereno, da forte, senza rimpianto, anche se il cuore… trema”.

 
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