Cittadini a testa alta

Il rapporto società-politica nell'intervista a Gianni Notari S. I., direttore istituto di Promozione politica “Pedro Arrupe” di Palermo.
Gente

Tante le esperienze di rinnovamento politico che si stano realizzando in Italia in questi anni. Ne cito solo due per tutte: l’Associazione nazionale Comuni virtuosi e il Movimento politico per l’Unità. Tuttavia ho l’impressione che queste esperienze non riescano a diventare patrimonio di una vasta comunità. Perché il “nuovo” stenta tante volte a crescere e a diffondersi?

Il nuovo spaventa. Esso richiede progettualità, creatività, spirito critico, coraggio, ma soprattutto attenzione al bene comune. Ma è anche vero che tutto questo viene rallentato dalla profonda crisi che attraversiamo.

 

 Puoi dirci qualcosa di più su ciò che genera resistenza al cambiamento?

Il mondo cambia. E non si capisce quale direzione prenda. C’è un tale stato di incertezza che la gente non sa più come orientarsi. Solitudine e precarietà, «come i passeggeri di un aereo che si accorgono che la cabina di pilotaggio è vuota, e che la voce rassicurante del capitano era soltanto la ripetizione di un messaggio registrato molto tempo prima». (Z. Bauman)

Cambiano soprattutto le coordinate di riferimento.Le ideologie gettano la spugna, ormai incapaci di parlare al cuore delle persone.

L’utopia della “democrazia liberale” è sempre più mortificata; lo stato non riconosce più la priorità e la superiorità delle leggi della “polis” sulle leggi del mercato. Il cittadino viene trasformato in consumatore obbediente che non deve vedere se non la propria “sicurezza”.

 

 E il cittadino come reagisce a tutto questo?

Cala un silenzio incomprensibile su tante situazioni e non ci si interroga più sulle cause e i processi che producono povertà, disagio e sofferenza… Si preferisce tacere.

Si ha la sensazione che tanti di noi preferiscano ridursi a burattini collocati sugli scaffali del supermercato globale come una qualsiasi altra merce; imballati e prezzati per essere vendibili al miglior offerente che promette una vita tranquilla nello scenario ben curato di uno spot pubblicitario.

Il tempo si è frammentato in episodi, la salute è diventata “fitness”, la massima espressione di libertà è lo “zapping”. Tanti preferiscono vivere così; è meglio vivere così che “impicciarsi” di cose più grandi della propria comprensione.

A ciò si aggiunge una strana paura, la paura di essere additati come “farabutti”. In nome del “bene irrinunciabile dell’unità” la videocrazia tiene sempre l’indice puntato su chi tenta di indicare quadri analitici e progetti alternativi. Provate a dire qualcosa sul conflitto di interessi oppure ad esprimere qualche opinione positiva su chi rivendica il diritto ad un’informazione democratica.

Provate a dire no all’attuale globalizzazione neoliberista e ad auspicare una globalizzazione dei diritti, per un mondo ove regole politiche democratiche e condivise pongano limiti precisi al dominio incontrastato dell’economia. Si viene criminalizzati! È l’eclissi della democrazia.

 

E la politica?

Nel suo ultimo libro in ordine di traduzione, La trasfigurazione del politico (Ed. Bevivino), Michel Maffesoli descrive la teatralizzazione della politica: si è passati dalla convinzione alla seduzione. La seduzione non è tanto un’attitudine programmatica, un contenuto preciso, quanto una tonalità emotiva che ha assunto come punto privilegiato il “sentire” che si prova quando viene messa in scena il copione delle illusioni. Il seduttore è vincente quando riesce ad “addomesticare” le coscienze, trasformando la realtà in fantasie.

Vengono così venduti “prodotti “ che tante persone comprano a scatola chiusa. E di persone così narcotizzate si può fare ciò che si vuole. Oggi ci si trova dinanzi ad una situazione paradossale basata sulla continua negazione dell’evidenza dei fatti. Ci viene detto che tutto va bene, che il nostro Paese è divenuto un modello di efficienza, mentre tante analisi ci mostrano una realtà opposta, sconfessando con i dati queste affermazioni.

Questa discrasia è divenuta la cifra stilistica della comunicazione politica che poggia su una scarsa tendenza della maggior parte dell’opinione pubblica all’approfondimento e all’argomentare. Ipse dixit. Non ci si interroga oltre. Ma è bene rammentare che la democrazia è altro: è dialettica di posizioni finalizzata all’elaborazione di strategie politiche volte alla realizzazione del bene comune.

Quando tutto ciò cessa di esistere, e si erge solo la voce del governo, allora c’è un regime. Per questo ben vengano le diverse denuncie dei mali della società, delle logiche della casta, delle varie parentopoli, delle inadempienze dell’amministrazione. Ben venga l’associazione dei comuni virtuosi!

 

Siamo un Paese di “narcotizzati”?

Nel Paese c’è chi non rinuncia a parlare e ad argomentare. Da più parti si dice che un’altra Italia è possibile. Molti prendono consapevolezza delle tante menzogne che alimentano il quotidiano e ritrovano nell’indignazione la propria dignità di essere liberi e pensanti. E vogliono capire.

Tanti stanno rialzando la testa. Non vogliono una guerra civile, ma una svolta fondamentale nella riacquisizione del confronto democratico; vogliono la certezza che su questioni fondamentali come la giustizia, la sanità, la scuola, il lavoro, la libertà di informazione si lavori per il bene comune, non per gli interessi di pochi.

 

Quali prospettive possiamo darci per dare spazio all’esercizio della democrazia?

 I nostri tempi sono una chiamata alla responsabilità e alla decisione. Il carattere dialogico comunicativo, proprio della vita di ogni società, va risottolineato con forza. L’incontro con l’altro, il diverso, la costruzione di legami di cura solidale, diventano elementi fondamentali della ricerca di un’autenticità capace di ridare spessore alla dignità della persona.

L’imperativo diventa andare al di là di una coscienza appiattita e coinvolgersi nel nuovo che nasce anche se spesso chi cerca di farlo è ignorato e isolato. Ma solo partendo da questa assunzione di responsabilità si ha il diritto di continuare a sperare. Come diceva Mario Cuminetti, essa è l’unica via per attendere la manifestazione della bellezza del mondo. Lo spazio in cui organizzare queste difese è piccolo, ma brandelli di realtà, che danno gioia e vitalità, possono essere ancora strappati alla omologazione generale in vista di una trasformazione del presente.

 

A questo punto diventa fondamentale un rinnovamento istituzionale?

 Perché possa avviarsi una stagione di buon governo è essenziale realizzare un profondo rinnovamento istituzionale. È il capitale istituzionale, infatti, alla base della performance di un Paese. Ciò vale per le istituzioni economiche ma vale anche, e soprattutto, per quelle politiche. Alti costi sociali, diritti precari, discrezionalità e clientelismi, scelte operative orientate a favorire interessi concentrati a costi diffusi, incapacità di elaborare organici progetti di crescita, rappresentano un ambiente ostile allo sviluppo ma anche terreno fertile per il diffondersi di opportunismi e malcostume.

Dinanzi al permanere di tale situazione, l’obiettivo non è facile né scontato e consiste nel realizzare una politica animata da una nuova soggettività eticamente orientata che possa ristabilire la credibilità perduta dal sistema istituzionale e interrompere circoli viziosi di connivenze e di tutele di interessi più o meno personali, realizzando un rinnovamento delle istituzioni al loro interno e nei rapporti con la società e il mercato.

 

Ma non solo il capitale istituzionale, ma anche il capitale sociale con le buone pratiche che esprime….

La grande operazione culturale e politica di cui ha bisogno il nostro Paese è quella di raccordare tutte le persone che credono nel rinnovamento e si adoperano nel quotidiano per realizzarlo. È necessario “pubblicizzare” quelle esperienze che sono più diffuse di quanto comunemente si crede e che rappresentano fermenti innovativi da valorizzare per migliorare la qualità della vita nel nostro territorio.

L’isolamento, lentamente, produce atrofia e degenerazione per cui questi semi rischiano di morire o di doversi vendere al miglior offerente del mercato politico per sopravvivere. Uscire dall’isolamento e creare sinergie, invece, può portare anche alla costituzione di un nuovo soggetto politico.

Non un ennesimo partito ma un movimento di cittadini responsabili, capaci di autonoma riflessione e di intervento al servizio del cambiamento; che sappiano “occupare” in maniera propositiva i posti in cui si decide il destino della gente: le segreterie di partito, i luoghi in cui si fa pianificazione strategica, le associazioni di categoria, etc. Tutto ciò va verso un nuovo modello di sviluppo che integri la crescita economica e la felicità della gente.

 

Un richiamo forte ad una partecipazione più sentita dei cittadini alla vita della città…

Penso che uno strumento operativo per realizzare questa “svolta” propositiva possa essere la creazione di spazi di condivisione e di confronto in cui elaborare ed esercitare una cittadinanza attiva. Nell’ottica di un modello di democrazia deliberativa, infatti, la società civile può raggrupparsi attorno ad una progettualità condivisa per ridare un’iniezione democratica al tessuto sociale cittadino e regionale.

Tale forza trasformativa – partendo dal “basso” – può animare i condomini, i quartieri, le circoscrizioni, le scuole, le università, le associazioni conquistando un potere contrattuale alla pari nei confronti dei decisori pubblici, in vista non dell’acquisizione di privilegi ma della crescita complessiva del territorio.

Allo stesso modo queste esperienze non devono essere finalizzate all’autoreferenzialità di un leader né devono rimanere autoreferenziali a esse stesse. Tale approccio è l’unico strumento della trasformazione, in un contagio democratico che ci auguriamo possa presto contagiare tutta la città e il territorio regionale. C’è una tempesta in atto, ma si vedono tanti piccoli arcobaleni.

 

Ma c’è un nemico sempre in agguato: il pessimismo.

Come ha rilevato Zamagni in un suo recente saggio, sapere che le cose possono andare in questo modo è di stimolo alla speranza: una strategia cooperativa non è un vago sentimento, ma ha un fondamento preciso. È necessario evitare quelle che il filosofo olandese Spinoza chiamava le «passioni tristi», cioè la tristezza di chi crede che non ci siano alternative, che non ci sia più nulla da fare.

Dobbiamo combattere una cultura dell’apatia, che troppo spesso non propone che «passioni tristi». Ci sono buoni motivi per ritenere che in ogni città ci siano sufficienti energie culturali e anche spirituali perché questo avvenga.

 

Vede dunque il cambiamento possibile.

Lo vedo possibile solo se investiamo sulle risorse umane di cui disponiamo. Con pazienza e tenacia. Dobbiamo però superare la mentalità del lamento e del fallimento. Dobbiamo scrivere pagine nuove dove si realizzano fatti che coinvolgono. Andiamo dal sindaco della nostra città, dagli assessori e raccontiamo loro quello che abbiamo vissuto e viviamo. Organizziamo visite guidate in quei comuni dove è stata posta la base per un cambiamento, visitiamo quei luoghi dove si vede la speranza che cresce. Incontriamoci con chi nel Paese costruisce percorsi animati dal “bene comune”.

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