CISM, formare e formarsi alla comunione
La tavola rotonda si conclude con l’intervento del Presidente Nazionale della Conferenza Italiana dei Superiori Maggiori (CISM). La comunione tra i carismi crescerà se i consacrati daranno priorità alla spiritualità di comunione nella formazione e nella elaborazione di progetti. Pellegrinaggio, coraggio e tolleranza per sentirsi parte di un tutto
Negli ultimi decenni, specialmente dopo il Concilio Vaticano II, molti religiosi e religiose sono stati coinvolti nella partecipazione ai movimenti.
Un dialogo maturato nel tempo
La situazione si è evoluta con il passare degli anni. Nel periodo del primo rinnovamento della vita religiosa, immediatamente dopo il Concilio, veniva lasciato ampio spazio alla sperimentazione. In tale contesto i rapporti con i movimenti ecclesiali generalmente erano visti in maniera favorevole. Si è quindi conosciuto un certo entusiasmo associativo e una sostanziale libertà di manovra.
Superata la prima crisi vocazionale ed istituzionale, la ricerca del nuovo è diminuita in favore di una maggiore concentrazione sulla vita interna degli istituti. Il rapporto con i movimenti ecclesiali si è fatto più problematico, fino ad avvertire una certa tensione. Da un confronto problematico, a volte polemico, si è quindi passati gradualmente ad una valutazione più serena della ricchezza di rapporti che queste differenti manifestazioni dello Spirito sono chiamate ad instaurare tra di loro. Ne è testimonianza la sostanziale positiva intonazione con la quale l’Esortazione apostolica Vita Consecrata e l’Istruzione Ripartire da Cristo espongono il fenomeno.
I documenti ecclesiali e le direttive dei superiori maggiori hanno indicato tutta una serie di criteri per la partecipazione dei religiosiai movimenti ecclesiali. Si può ricordare il criterio principale che in genere si sottolinea maggiormente: perché l’esperienza di un religioso o di una religiosa all’interno di un movimento possa risultare positiva si richiede una profonda identità carismatica e un pieno inserimento all’interno della propria comunità, nella quale occorre vivere i valori comunicati dal movimento, con una partecipazione piena e attiva alla sua vita e al suo ministero.
Senza un amore sincero alla propria vocazione e alla propria famiglia religiosa difficilmente si potranno tessere autentici rapporti di comunione con le altre vocazioni.
Come crescere nella comunione?
Credo che oggi siamo chiamati ad un passo in avanti e a domandarci, positivamente: come possiamo crescere nel dialogo, nella collaborazione, nella comunione con le nuove forme di vita consacrata?
In definitiva è domandato di unire le ispirazioni e le forze e affrontare insieme le sfide della nuova evangelizzazione, della globalizzazione, del dialogo ecumenico e interreligioso, della credibilità in una società secolarizzata, multiculturale, postmoderna.
Piuttosto che lasciarsi guidare da prevenzioni o perdersi in sterili polemiche, occorre avere il coraggio di una autentica comunione fraterna, piena di stima e di fiducia reciproca. Occorre guardarsi gli uni gli altri, conoscersi meglio, giungere alla comunione piena, in vista di guardare oltre, insieme, e lavorare, come unica grande realtà carismatica, per la Chiesa e per l’intera umanità. Per prima cosa mi pare di dover riaffermare la necessità di avere un’avvertita consapevolezza del momento che stiamo vivendo, e di trasmettere con serenità e convinzione ai nostri fratelli, vincendo ogni sorta di fatalismo, di rassegnazione o di sterile rimpianto. Non siamo “vecchi”, non temiamo il nuovo; attingiamo il nostro vigore a sorgenti carismatiche potenti e abbiamo la responsabilità di far splendere la luce che ci è stata donata, ma accettiamo e onoriamo anche il nostro limite: può darsi che si appanni nella storia della Chiesa qualche carisma, ma non viene comunque meno il dono dello Spirito.
Siamo perciò in dovere di testimoniare ed esprimere un generale e cordiale apprezzamento per tutto ciò che di nuovo nasce oggi nella Chiesa, perché crediamo nello Spirito Santo e nella sua fantasia e perché proprio la conoscenza e l’esperienza della nostra storia ci fa capaci di accogliere il nuovo che ci interroga senza alcun timore, ma anche senza nessuna assolutizzazione.
Dare priorità alla comunione
Forse, in questa stagione della Chiesa, è opportuno ridurre un po’ l’enfasi sul carisma o sulla spiritualità propria per formare e formarsi in modo più insistito e convinto ad una spiritualità di comunione: siamo parte di un tutto, senza la visione e il rapporto con il tutto rischia di perdere senso la parte. Conseguentemente sembra sempre più necessario predisporre percorsi formativi che abbiamo a cuore la conoscenza, l’incontro, l’esperienza degli altri carismi, senza temere così di perdere tempo e di sprecare energie in ordine all’approfondimento della propria identità.
Una simile attenzione va posta anche nelle strategie di governo, nelle scelte che siamo chiamati a compiere: è importante cercare una relazione sempre più ampia, maturare progetti, elaborare decisioni in relazione e dialogo con gli altri soggetti ecclesiali, con i laici, con la Chiesa locale, con il territorio.
Pellegrinaggio
Mi piace riprendere qualche immagine dall’intervento che Timothy Radcliffe, op, già Maestro generale dei Domenicani, ha tenuto all’Assemblea dell’UCESM di Lubiana, dal titolo: “Il contributo della Vita Consacrata alla costruzione di un’etica per l’Europa” (2004). Ha descritto la condizione culturale dell’Europa come quella del “pellegrinaggio”, icona di uno stato di ricerca, a volte chiaro e distinto, a volte vago e confuso, ma sempre espressione di un desiderio di compimento.
“Pellegrinare” deve divenire una condizione dello spirito e uno stile di vita, del quale i consacrati possono essere testimoni in modo particolarmente efficace: il pellegrinare richiama la sobrietà della vita, il contentarsi dell’essenziale, l’accettare la situazione di indigenza e di bisogno dell’altro, lo stare sulla strada della ricerca sino alla fine, il farsi compagni di strada nel cammino.
Nella vicenda ecclesiale odierna vi sono storie che cominciamo, storie che si consolidano, storie che continuano e anche storie che si trasformano. Noi, membri di ordini antichi e di congregazioni religiose, siamo portatori ed eredi di una storia, che è un bene necessario per tutti, soprattutto nel nostro tempo e per le generazioni odierne che rischiano di essere senza memoria.
Ma essere eredi della storia non significa non farsi portatori del sogno del futuro.
Mi pare che noi possiamo essere segni di comunione e luogo dell’incontro dei carismi, con la gioia della nostra povertà e con il coraggio della nostra testimonianza.
È virtù propria del pellegrino godere delle poche cose che ha, ma gioiosamente: non servono alla comunione dei carismi rimpianti o nostalgie del glorioso passato, ma la gioia di essere quello che si è, di appartenere al dono che siamo chiamati a condividere, con un “bagaglio leggero”, proprio di chi è in cammino, e si lascia cambiare dalle vicende che vive ed incontra sulla strada, ma sa qual è la sua direzione.
Coraggio
E poi il “coraggio”: i nostri santi fondatori sono stati protagonisti di ardimento, anche di un pizzico di follia, non hanno temuto di sperimentare e di sperimentarsi nel nuovo, nell’incontro, nel dialogo.
A noi è chiesto questo coraggio: rinserrare le file per rinchiuderci nelle nostre mura, difendere le nostre certezze, rivendicare antichi diritti o primogeniture non serve e non ci serve. Serve quell’umiltà relazionale che vive del dialogo la prima ed essenziale regola: l’impegno a trovare nell’altro non quello che lo differenzia da me, ma quel frammento o quel fascio di luce che può illuminare anche la mia vita e la mia esperienza.
Tolleranza
E infine saperci incontrare con il nuovo, con il diverso. Parliamo spesso, per altri e più vasti aspetti, di “tolleranza”: ma non sarà anche questo un atteggiamento di base per l’incontro dei carismi, se sappiamo restituire al termine la sua valenza positiva e la sua pregnanza semantica?
Tolleranza non significa accondiscendenza o sopportazione, ma, in relazione all’etimo latino, significa “portare l’altro”, stare al suo fianco, promettersi e promettergli di non volerlo perdere, farsi carico della sua caratteristica: sto al tuo fianco perché, al di là di tutto, qualcosa ci accomuna nell’essenziale; sto al tuo fianco, perché non voglio perderti.
Per vivere nella Chiesa e nella vita questo impegno ci vuole una buona dose di libertà interiore: è la libertà interiore che apre queste strade, che mi permette di lasciare all’altro il suo spazio e i suoi tempi, di non volerlo omologare a me, di lasciargli libertà di scelta. Non imporre, ma cercare la verità insieme, misurandosi e confrontandosi con quel frammento di verità che ciascuno possiede, senza voler imporre soluzioni precostituite.
Spesso all’origine delle difficoltà di incontrarsi, di accettarsi e di riconoscersi c’è la paura della diversità dell’altro, che sempre ci mette in questione. Inconfessatamente noi desidereremmo che gli altri fossero uguali a noi, o uguali a noi divenissero: la diversità è difficile da sopportare e tanto più difficile quanto più si vive una situazione di prossimità. Forse questo spiega, almeno dal lato umano, perché l’incontro dei carismi si manifesta più spesso come desiderio che come prassi di vita.
Ognuno oggi vuol dirsi tollerante, ma soprattutto in rapporto a ciò che gli somiglia: accettiamo la tolleranza come enunciato di identità, non di differenza, ma questa forma di tolleranza è fondamentalmente un amore di sé.
Noi religiosi dobbiamo dare una interpretazione diversa della tolleranza: accettare l’alterità del fratello è il centro della vita religiosa. L’altro resta l’altro, diverso da me: devo cercare la comunione con lui sull’essenziale, che è la nostra comune vocazione.
Ospitalità, ricerca, identità
Forse potremmo sintetizzare l’insieme del nostro discorso accogliendo gli “atteggiamenti di fondo” che vengono suggeriti nella Nota Pastorale dei Vescovi Italiani[i] per qualificare il volto missionario della parrocchia: ospitalità, ricerca, identità.
Una vita consacrata “ospitale” significa nella comunità cristiana un luogo di dialogo e di incontro, di confronto e di reciproco apprezzamento, il luogo dell’offerta e dello scambio dei doni; il luogo dove, a partire da ciò che è “proprio”, si esalta e si mette in evidenza ciò che è “comune”.
Una vita consacrata “in ricerca” è un luogo dove si fugge la tentazione di chiudersi in se stessi, paghi dell’esperienza gratificante di comunione che si può realizzare fra quanti vivono la medesima appartenenza.
È una vita consacrata “samaritana”[ii]: capace di riconoscere le sue fragilità e le sue ferite, di lasciarsele curare e guarire e capace ancora, nella coscienza della sua povertà e debolezza, di farsi essa stessa curatrice e guaritrice; una vita consacrata “sulla strada” luogo degli incontri e della carità.
Un vita consacrata con la sua precisa e forte identità è quel che più giova all’incontro dei carismi: chi ci incontra, in sostanza, deve poter incontrare Cristo, leggere nella nostra vita il senso escatologico di tutto, senza troppe glosse o adattamenti.
Mi piace concludere con parole non mie, che vengono da una sapienza e da una santità antica, ma che riassumono atteggiamenti ed impegni che ci possono caratterizzare in questa stagione della Chiesa. Un canonico regolare del secolo XI così scriveva a proposito del rapporto fra i diversi stati nella Chiesa: “Ama nell’altro ciò che tu stesso non hai, affinché l’altro possa amare in te ciò che egli stesso non ha, perché il bene compiuto dall’uno sia anche bene dell’altro, e siano uniti nell’amore coloro che sono divisi dalle occupazioni… Se ti avviene di non poter raggiungere ciò che un altro possiede, è amando che lo possiederai”[iii].
[i] CEI, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, n. 13
[ii] Cf. Strumento di lavoro del Congresso Mondiale della Vita Consacrata: Passione per Cristo, passione per l’umanità.
[iii] Cit. in J. Castellano Cervera, Carismi per il terzo millennio, Edizioni OCD, Roma 2001, p. 242.