Il circo, la torre e l’agnellino

Ora visitabile la parte scavata del Circo Massimo con la Torre medievale che si dice abbia ospitato san Francesco d’Assisi

La recente apertura al pubblico, dopo anni di scavi e di restauri, dell’unica parte del Circo Massimo rimessa in luce, e precisamente la zona meridionale dell’emiciclo con la medievale Torre della Moletta, mi dà l’occasione per parlare del più grande edificio per spettacolo e sport dell’antichità pervenuto fino a noi. Occupava, con la sua lunghezza di circa 600 metri per una larghezza di 140, gran parte della valle Murcia tra il Palatino e l’Aventino, ed era in grado di ospitare fino a 250 mila spettatori. Qui si svolgevano quelle corse dei carri per le quali i romani impazzivano e gli stessi imperatori facevano follie, coprendo d’oro gli aurighi loro beniamini. Qui, passando sotto l’arco di Tito al centro dell’emiciclo, sfilavano i cortei trionfali dei generali e imperatori reduci dalle vittoriose campagne belliche per poi dirigersi verso il tempio di Giove sul Campidoglio.

Fastoso, ricco di marmi provenienti da tutte le province dell’impero, con sacelli e altari eretti a varie divinità e i due obelischi egizi di granito rosso collocati sulla “spina” (la lunga piattaforma che divide la pista), il Circo Massimo era la meraviglia-simbolo del potere di Roma. Così l’esalta Plinio il Giovane nel suo Panegirico di Traiano: «Lì l’immenso fianco del circo sfida la bellezza dei templi, degna sede del popolo vincitore del mondo, degno di esser visto non meno degli spettacoli ai quali in esso si assisterà».

Ma ricco era anche di significati religiosi e simbolici, a ricordo delle cerimonie collegate ai cicli naturali che si tenevano in antico in una valle Murcia ancora non monumentalizzata. Era infatti presente, sulla tribuna da cui l’imperatore con la sua famiglia assisteva ai giochi, un tempio dedicato al Sole. E sempre al Sole, l’auriga celeste, erano dedicati gli obelischi citati, poi trasferiti in piazza del Popolo e in piazza San Giovanni in Laterano. Le porte dei box dai quali partivano i carri erano dodici come i segni zodiacali e i mesi dell’anno. I quattro colori delle squadre (bianco, rosso, verde, azzurro) si riferivano alle stagioni. Le “mete”, i due grandi cippi attorno a cui giravano i carri alle estremità della spina, rappresentavano i confini d’Oriente e d’Occidente. Sette erano le uova sacre ai Castori e altrettanti i delfini sacri a Nettuno che, in legno o in pietra, segnalavano al pubblico il numero di giri compiuti dai carri; giri in numero di sette anch’essi, come i pianeti e i giorni della settimana.

Purtroppo il Circo Massimo non ospitò solo gare sportive e cortei: fu anche luogo di martirio per innumerevoli cristiani. Più tardi, divenuta libera, la Chiesa si ispirò alla planimetria circense per erigere edifici religiosi dove deporre questi nuovi atleti che invece di una corona corruttibile avevano conseguito un premio eterno, come pure i fedeli che desideravano farsi seppellire loro accanto. La forma allungata di tali chiese cimiteriali ben si prestava alle processioni e cerimonie di suffragio, mentre il deambulatorio lungo le navate e attorno all’abside consentiva l’afflusso dei pellegrini alle tombe senza disturbare il culto.

Oggi del Circo Massimo rimane l’”impronta” incassata tra Palatino ed Aventino, giacendo ciò che resta delle sue strutture sotto i contrapposti declivi erbosi (un progetto del 1943 di scavo integrale fu abbandonato in seguito agli eventi bellici). Nella zona curvilinea, l’unica oggetto di scavi in passato e più di recente, sono invece visibili gli imponenti muri di sostegno delle gradinate, i resti dell’arco di Tito e innumerevoli frammenti architettonici di marmi pregiati, insieme alla torre del XII secolo nota come Torre della Moletta dall’annesso mulino ad acqua (nel Medioevo l’intera valle Murcia era attraversata da un canale) o anche come Torre Frangipane, nome della nobile famiglia romana la cui roccaforte si estendeva tra i ruderi dell’arco di Tito e del vicino Settizodio: da cui, per corruzione, Torre de’ Settesoli. E Jacopa de’ Settesoli fu appunto la Frangipane che, dopo la morte del marito e il suo ingresso nel terz’ordine francescano, si ritirò in questa torre dove, secondo la tradizione, ospitò il santo di Assisi in una delle sue venute a Roma: ciò che meritò a “Frate Jacopa” (così affettuosamente la chiamava Francesco) il dono di un agnellino che pareva ammaestrato nelle cose dello spirito e mai si staccava da lei: «Neppure il mattino quando andava in chiesa a pregare. Se la signora tardava ad alzarsi, l’agnellino saltava su e la colpiva con i suoi cornetti, la svegliava con i suoi belati: l’agnellino, discepolo di Francesco, era diventato maestro di devozione» (Legenda Maior)

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