Cinema, sguardi sul dolore a Venezia 2020
Vira in profondità la rassegna del cinema a Venezia, mostrando i dolori del mondo attuale, le sospensioni, le paure ed un futuro incerto attraverso alcuni lavori che denotano uno sguardo “diverso” o meglio reso diverso dalla pandemia.
Gianfranco Rosi presenta nel suo “Notturno”, il viaggio della pietas nelle zone martoriate del Medioriente: tre anni per girare un docufilm sui confini tra Iraq Kurdistan Siria e Libano a raccontare la quotidianità che sta dietro la tragedia della guerra.
La vita che vuole vivere oltre la morte, le ferite, le torture. I ragazzini che in una scuola disegnano le atrocità dei miliziani dell’Isis verso grandi e piccoli: occhi ancora scuri, sonni irrequieti, paura che il male ritorni. Il cacciatore che prende la barca e va al largo a catturare prede, il ragazzo svegliato dalla madre di tanti figli per cacciare, lo sguardo pieno di dolore.
Sono alcuni dei frammenti che Rosi filma sotto un cielo difficilmente sereno, tra gli echi delle mitragliatrici sempre presenti, i soldati armati, il campo profughi fangoso, il fantasma della morte. Eppure, nel notturno dell’atmosfera e della vita, il regista apre al desiderio di luce.
L’ultima sequenza, il ragazzo che guarda lontano, verso un punto indeterminato, fra malinconia tristezza e speranza, è l’immagine colma di pietas di una vita che nonostante tutto vuol riprendere sé stessa. Poesia, riflessione, cuore, in un lavoro in odore di Leone, forse il migliore tra gli italiani finora in mostra.
Emma Dante invece ritorna nella sua Palermo a tradurre in film il suo lavoro teatrale Le Sorelle Macaluso. La vita di cinque sorelle sole, senza genitori nell’appartamento all’ultimo piano di un condominio grigio, tra decine di colombi che volano nel cielo e poi ritornano nella casa.
La casa: il personaggio che lega le donne anche quando qualcuna morirà o sarà partita, come luogo degli affetti, nonostante tutto: le risse, le gelosie, i giochi, i sogni di Maria, Pinuccia, Lia, Katia, e Antonella.
Se la prima parte è limpida, solare, scherzosa ed innocente – la migliore come ispirazione – il progredire degli anni, ossia il Tempo, svela i segreti della felicità o dell’infelicità, i destini diversi e “avversi”, secondo quel senso del destino fatale che sottende la narrazione. Sino al finale della morte, così naturale, rituale, anche della casa svenduta, dei colombi rimasti soli e sperduti, della pioggia malinconica e del trauma risorgente della sorellina morta durante un gioco al mare.
Lo strazio del dolore è stampato nei volti sfatti, rugosi, nei corpi brutti, in qualcosa anche di animalesco (la donna che s’ingozza di pasticcini) in cui la Dante si compiace, in un mondo solo al femminile, dove gli uomini, in pratica, non ci sono se non per “piacere”.
Un microcosmo di affetti-non affetti, ma legati da un amore possessivo nonostante tutto. A parte la fotografia molto bella e a tratti poetica e la bravura delle interpreti siciliane, il film scivola gradualmente – ed è un peccato – nel mèlo tragico e fatalistico, consueto alla regista, in cui la vecchiaia e la morte sono la conclusione amara dell’esistenza, perdendo lo slancio vitalistico iniziale.
L’affetto di un padre malato (James Norton) per i l figlio bambino è il centro del film di Uberto Pasolini Nowhere Special (“Da nessuna parte in particolare”). Era facile scivolare nel manierismo pietistico raccontando di John, 35 anni, che ha davanti a sé pochi mesi di vita e deve trovare chi voglia adottare il piccolo, dato che la madre è lontana. Invece, a sorpresa, il regista non forza nulla, si sofferma su istantanee – una bottiglia…-e specialmente sugli occhi espressivi del piccolo-grande attore Daniel Lamont, 4 anni. Quando è la misura, e non l’eccesso, a generare la semplicità della verità nel cinema.