Cinema, ristoranti e integrazione

Ristoranti e cinema, due cartine tornasole che non tradiscono per una lettura sulle evoluzioni sociali e sulle questioni di interazione culturale.
Andrea Segre e Zhao Tao
E’ sintomatico che, nelle ultime settimane, ristoranti e cinema forniscano elementi che sarebbe bene non ignorare nel leggere la situazione della nostra penisola che, insieme ai suoi problemi interni, spesso davvero meschini, sta ovviamente vivendo questioni ben più importanti che rischiano di essere messe da parte.

 

Sono in programmazione nelle sale cinematografiche delle nostre città due pellicole, molto diverse fra loro da un punto di vista cinematografico ed artistico, ma ugualmente impegnate sulla problematica dell’integrazione. Io sono Li, un delicato film di Andrea Segre, racconta una storia d’integrazione in provincia, a Chioggia, dove una giovane madre cinese intesse un rapporto umano e profondo con un anziano pescatore del posto. Il rapporto fra questi due mondi aiuta l’italiano vedovo, ormai chiuso nella routine quotidiana e nel rapporto coi pochi amici, a ritrovare un respiro di vita e, allo stesso tempo, contribuisce ad inserire la donna orientale nell’ambito chiuso del mondo della provincia italiana. Il rapporto non è senza problemi a causa dell’ambiente circostante che costringe i due a non vedersi più. Il villaggio di cartone, tipica opera di Olmi, è la tragedia di un gruppo di clandestini che arrivano da Paesi dall’Africa sub sahariana. Braccati dalla polizia e dalle squadre della sicurezza delle cittadina, trovano rifugio in una chiesa appena dismessa, dove il prete, ormai anziano, li accoglie e li difende fino alla partenza. Anche qui il nemico è l’ambiente circostante, la pressione sociale, la diceria della gente, la paura del diverso.

 

La conclusione di entrambe le pellicole è da leggersi fra le righe, ma è molto significativa. Il vecchio pescatore a contatto con la giovane cinese ritrova se stesso e la voglia di vivere, che lo fa uscire dal trantran del suo mondo. Quando deve interrompere l’amicizia, a causa della gente, piomba nella disperazione e si avvia alla morte. Il prete, protagonista dell’opera di Olmi, ritrova non solo il senso della sua missione, ormai svanita, ma anche il senso della sua chiesa, ormai vuota. Arriva a cantare davanti a quegli emigrati l’adeste fideles, che dà il benvenuto a Cristo, tornato, fra quelle mura grazie a quegli emigrati. Sono gli altri che ci fanno davvero capire chi siamo e solo nel rapporto che scopriamo la nostra identità. L’alterità ci minaccia, ma al di là della paura e degli stereotipi, c’è sempre la scoperta di mondi ricchissimi e, soprattutto, la riscoperta di se stessi.

 

Qualcosa di simile sta avvenendo nell’ambito delle ristorazione, un’industria da sempre fiore all’occhiello dell’Italia. La nostra cucina mediterranea celebrata non solo per la qualità ma anche per la salute, se realizzata ed accostata con equilibrio e senza eccessi, sembra essere minacciata dai ristoranti etnici che continuano a spuntare come funghi dappertutto. Alcune città, racconta Il fronte dei sindaci contro il kebab, un interessante inserto di Repubblica del 20 ottobre, stanno scoraggiando, all’interno dei centri storici, l’apertura di punti di ristorazione che non siano strettamente italiani.

 

Addio ai ristoranti cinesi, a quelli giapponesi e messicani e ai kebabs e così via. Certo, dobbiamo difendere il made in Italy, è un diritto sacrosanto, ma che dire dei Paesi di tutto il mondo, costellati di pizzerie e di ristoranti all’italiana? Grazie, all’apertura di Paesi di ogni continente non solo abbiamo difeso il made in Italy, ma lo abbiamo anche esportato con grande guadagno per l’immagine dell’Italia e per le tasche di molti italiani. Forse ci sfugge che, in un mondo sempre più globale, e, quindi, interetnico ed interculturale, la reciprocità diventa una legge decisiva. La chiusura o il mancato permesso di apertura a punti di ristorazione di altra provenienza rischia di lasciarci chiusi in un ghetto.

 

Cinema e cucina, due aspetti che hanno reso l’Italia famosa nel mondo, due chiavi di letture del grande nodo che ci sentiamo un po’ tutti sulla pelle. La diversità è davvero un problema? Forse! Ma potrebbe anche rappresentare un’occasione, come mostrano le due pellicole di cui abbiamo parlato.
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