Il cinema italiano rinasce

A Venezia un gruppo di film di notevole interesse, come Qui rido io di Martone, rivela uno slancio nuovo della creatività nostrana
A sinistra Toni Servillo, a destra Mario Martone durante la 78a edizione della Mostra del Cinema di Venezia (Joel C Ryan/Invision/AP)

Napoli brilla a Venezia. Dopo Sorrentino, ecco Mario Martone con Qui rido io, la storia del patriarca Eduardo Scarpetta e della sua nidiata più o meno legittima, tra cui i grandi Eduardo, Titina e Peppino non riconosciuti da lui. Grande affabulatore, Scarpetta è Napoli o meglio una certa Napoli, visionaria, ruggente, ilare e anarchica. Toni Servillo qui è davvero grande, senza quelle smorfie o quegli atteggiamenti ripetitivi che ultimamente lo avevano caratterizzato, anche per la sua eccessiva presenza nei film (a Venezia in quattro lavori!).

Qui rido io è Eduardo-Servillo che al processo tra lui e d’Annunzio sbeffeggia tutti con la libertà dei creatori d’arte, dei tetranti nella scena e nella vita, ma soprattutto interpreta un terribile narcisista che più che ai figli vuol bene a sé stesso. E sarà la tragedia, quella della paternità negata, specie di Eduardo De Filippo, mai riconosciuto come figlio, un creatore del teatro novecentesco.

Girato teatralmente, con una luminosità bella e calda, lussuoso nel ricreare ambienti e atmosfere, il film è leggero, contornato da un cast eccellente, esuberante, mai un filo di retorica sbagliata, fluisce inarrestabile fra riso, malinconia e dramma. Chi era in definitiva Scarpetta? Una sorta di patriarca amorale, spinto da una atavica fame di riscatto – la “fame” è ben presente come tema e realtà -, difeso addirittura da Benedetto Croce sulla libertà artistica, vissuto tra mogli, amanti e palcoscenico. Un microcosmo in una persona di vitalità, riscatto, fantasia reso da Martone con intelligente scorrevolezza a vivere la vita divorandola e irridendola. La coppia Servillo-Martone è candidata al Leone, certamente.

Ma non è finita. C’è posto per il fantasy in salsa italiana con Freaks Out di Gabriele Mainetti, quello del successo nel 2015 “Lo chiamavano Jeeg Robot”. Stavolta è un quintetto di circensi nella Roma del ’43 occupata dai nazisti. Frastornati dalla scomparsa di Israel, il loro capo, vengono trovati da un generale nazista che ne scopre i talenti e li “usa”. Sarà divertente e sconcertante seguire le scorribande di questi reietti tra passato e futuro in un lavoro quanto mai fluido, fantasioso, anche grazie alla bravura degli attori, vere “vittime” di un talento registico da tenere ben d’occhio.

Lascia dubbiosi America Latina dei fratelli D’Innocenzo con il solito grande trasformista Elio Germano – un premio lo meriterebbe – alla ricerca del lato oscuro dell’uomo, alla verità oltre l’ipocrisia. Il film fa e farà discutere perché l’America è più che altro l’ex palude pontina, le vite franate. Uno di quei lavori che non si colgono al primo impatto ma poi servono a far pensare.

Come, nonostante la volontà provocatoria – talora eccessiva – succede in La scuola cattolica di Stefano Mordini (Fuori Concorso) sul delitto del Circeo del 1975, quello dei ragazzi della Roma bene che hanno stuprato e massacrato due ragazze “del popolo”. L’accusa è alle famiglie superficiali e disunite ed anche alla scuola cattolica – con personaggi ambigui – di aver creato dei mostri dalla faccia pulita. Un film, dal tono accusatorio neanche troppo nascosto, sull’attualità della violenza maschile e sulla fragilità educativa di famiglie e istituzioni.

Da non perdere infine il piccolo gioiello che è Ariaferma di Leonardo Di Costanzo con Servillo e Silvio Orlando sulla vita in carcere – peccato non sia in concorso – crepuscolare e delicatamente complesso.

Insomma, l’Italia va alla grande a Venezia e si meriterebbe vari premi, se non altro al trio Martone-Servillo-Sorrentino ma pure ai giovani emergenti. Speriamo.

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