Cinema e storia

Ha vinto giustamente il premio della giuria a Cannes nella sezione “Un certain regard” nel 2015 Sole alto, regia del 40enne Dalibor Matanic, produzione croata-serbo-slovena. Già la singolarità dell’unione produttiva spiega la particolarità del lavoro
Scena da "Sole alto"

C’è un modo diverso di affrontare la storia contemporanea nel cinema europeo. Ha vinto giustamente il premio della giuria a Cannes nella sezione “Un certain regard” nel 2015 Sole alto, regia del 40enne Dalibor Matanic, produzione croata-serbo-slovena. Già la singolarità dell’unione produttiva spiega la particolarità del lavoro.

 

Tema conduttore sono le storie d’amore tra giovani, datate 1991, 2001 e 2011, ossia l’inizio del conflitto multietnico dell’ex Jugoslavia, le macerie postbelliche, la realtà attuale. Il privato si innesta nella storia sociale: nel primo episodio Ivan, croato, e Jelna, serba, vogliono trasferirsi a Zagabria, ma il loro amore è impedito dall’insorgere irrazionale del caos e dell’intolleranza etnica; nel secondo Natascia, torna nella casa distrutta insieme alla madre, ma non si dà pace, è rancorosa e detesta Ante, che appartiene all’etnia che gli ha ucciso padre e fratello e non sa perdonare, pur avendo con lui un fuggevole rapporto sessuale; nel terzo, Luka torna a cercare Marija che ha abbandonata incinta e attende il suo perdono.

 

Con i medesimi attori per le 3 storie – Tihana Lazovic e Goran Markovic – si racconta in realtà il dramma di un Paese spezzato, l’orrore della morte, la difficoltà della riconciliazione, grazie anche a un paesaggio ora oltraggiato ora rinato e alla presenza di un altro personaggio: il lago, luogo di riposo e di morte insieme. Una riflessione sul dolore e il perdono condotta con uno stile così sobrio quale raramente si riscontra in film del genere, con tocchi umoristi sparsi qua e là, la visione della morte e quella della gioventù postbellica ansiosa di divertimento, le ferite della guerra mai cancellate e la voglia di perdono, espressa da una timida porta socchiusa. Di rado si trova un lavoro capace di far pensare senza esagerare in pesantezze o realismi efferati, ma con un linea narrativa pulita, essenziale che parla più per allusioni che per dichiarazioni.

 

Il film si imprime come uno sguardo dolente su ciò che l’uomo può fare per distruggersi e ricominciare e appare delicatamente un invito al perdono, sul filo dell’amore che è, per il regista, il soffio vitale dell’intera narrazione, tra apologo e commedia. Da non perdere.

 

 

Tutt’altro clima invece nel nostro Il Ministro, in uscita il 5 maggio.

L’Italia non è cambiata, anzi è peggiorata e non cambierà mai. La corruzione è troppo grande, vasta e impunita, in particolare dei politici a cui però siamo in qualche maniera agganciati e compromessi tutti noi. È il messaggio del film diretto da Giorgio Amato dove l’imprenditore sull’orlo della bancarotta, Franco, invita a cena un potente ministro “cattolico” con l’intento di corromperlo grazie a una forte mazzetta e ad una procace escort cinese. La moglie Rita, vegana e gallerista acida in confitto col marito, è presente insieme al fratello Michele, socio dell’imprenditore. La tensione è altissima e i nervi sono tesi in tutti, meno che nell’onorevole che, a parole, è corretto, ma in realtà disponibile a ogni tipo di corruzione come tutto ciò che si svolge nel corso della serata, in cui circolano droga e affini, tra le esternazioni della “teologa” cinese, scaltra escort nel ricatto. Ma succede un incidente e il piano è messo in crisi.

 

Cinica raffigurazione di un’Italia perversa, superficiale – siamo certo nell’alta borghesia, ma il film punta a un discorso universale -, il racconto non fa sconti a nessuno e non lascia margine ad alcuna possibilità di riscatto, anche per i deboli: i poliziotti o gli immigrati di fatto sono dei perdenti costretti al compromesso e al silenzio per sopravvivere. Recitato da un cast all’altezza, il ritratto di quest’Italia così sconcia è disarmante, ma non è contro i politici tout-court: piuttosto contro un clima amorale che ormai è diventato patrimonio comune. C’è solo amarezza, nessuna speranza. Forse non esagererà il nostro regista?

 

Una vendetta è invece The Dressmacker della regista Jocklin Moorhouse, prodotto australiano di classe, che coniuga mélo thriller e commedia con tocchi ironici e drammatici con stile sopraffino. Protagonista è Tilly, che ha lasciato il paesino di Dungatar a 10 anni con l’accusa di un misterioso omicidio. Vi ritorna all’inizio degli anni ’50 dalla madre emarginata, Molly, con le qualità di una grande sarta cresciuta in Europa, ma l’ostilità del paese bigotto le è nemica da subito.

Tilly – una grande Kate Winslet – non si perde d’animo, conquista il cuore del giovane Teddy (Liam Hemsworth), rivoluziona la moda delle donne con gli abiti moderni, attirandosi l’ostilità conclamata della classe conservatrice, che nasconde gravi segreti al suo interno. Tilly li svelerà a costo di una dolorosa prova. Anche qui, un piccolo mondo è messo di fronte alla vendetta o alla confessione delle colpe e al perdono. Ma c’è chi non l’accetta e allora sarà la vita a prendersi la sua rivincita. Magnificamente fotografato, sciolto nella narrazione, recitato da uno splendido cast anche di caratteristi, il film è un piacere per gli occhi e per il contenuto: una storia che fa pensare all’oggi, pur ambienta decenni fa. Spettacolo certo, ma anche pensiero, il che non è poco. Ma il cinema australiano fa spesso sorprese del genere.

 

 

Escono anche: Lo Stato contro Fritz Bauer, dedicato alla ricerca del nazista Eichmann; La memoria dell’acqua, documentario del cileno Patrico Guzmàn, molto poetico e al contempo di denuncia.

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