Cinema e politica, Trump e Berlinguer
Andrea Segre può essere soddisfatto. Il suo Berlinguer – La grande ambizione, che ha aperto la Festa di Roma, ha vinto il premio come miglior attore ad Elio Germano. Un premio meritato perché Germano, attore molisano di lungo corso, ogni volta che dà vita a un personaggio diventa lui, come è stato ad esempio con Leopardi. Questa volta ha affrontato il compito, difficile, di “essere” Enrico Berlinguer negli anni dell’affermazione comunista in Italia, del terrorismo, dell’accordo saltato con Moro. Tutte realtà ben presenti nel film, tra documenti e indagini sulla vita personale e familiare del leader sardo, tenace come la sua terra. Oltre al ritratto dell’uomo politico che non deflette un attimo del suo percorso di distanziamento dall’Urss a proprio rischio e pericolo e alla sua vicinanza alla gente reale e ai problemi sociali, insieme ad una indubbia capacità di visione, c’è quello forse poco noto del marito innamorato, del padre di famiglia che discute con i figli, del ragazzo cresciuto modestamente e poi di quella salute delicata che lo rende ancor più determinato nel suo agire e lo consumerà anzitempo.
Il film, girato e interpretato molto bene, diventa una sorta di canonizzazione laica del leader degli anni ’70-‘80 con una folla sterminata al seguito in una Italia distante anni luce da quella attuale. Sfilano personaggi noti, da Moro ad Andreotti, da Ingrao a Cossutta, e c’è lui, modesto e deciso, pronto a sacrificarsi se venisse rapito, come dice alla famiglia: «Se mi rapiscono come è successo a Moro, voi non tratterete con i terroristi», mantenendo anche per sé la linea dura del suo partito.
Film forte, naturalmente elogiativo del leader ma senza eccessi, che le nuove generazioni dovrebbero vedere per conoscere la nostra storia e togliere il mito della felicità italiana di quel periodo tuttora in voga.
Altra cosa, ben più contemporanea, è il film The Apprentice – Alle origini di Trump di Ali Abbasi, un lavoro dirompente negli Usa in attuale campagna elettorale. Racconta infatti senza sconti l’ascesa del tycoon arrivato addirittura, senza averlo programmato da giovane, alla Casa Bianca. Si parte dagli anni ’70, quando il giovane rampollo, figlio di un immobiliarista, vuole ambiziosamente arrivare al successo personale. Lo istruirà un machiavellico maestro di amoralità, l’avvocato Roy Cohn, spregiudicato e anticomunista, figura squallida che poi Trump abbandonerà una volta diventato potente. «La verità non esiste, la morale non esiste», gli suggerisce l’avvocato e Trump impara. Ottimamente, visti i risultati. Recitato molto bene da Sebastian Stan e Maria Bakalova, come sua prima moglie, il racconto non perde un colpo nello sviluppare l’ascesa a colpi di infrazioni della legge del miliardario e fa capire molto del suo comportamento. Lo apparenta, pur in un mondo diverso, all’ascesa del nostro Berlusconi, figlio anche lui dell’autoaffermazione amorale.
Da far pensare.