Il cinema della violenza
È una storia di violenza, che risale agli anni dell’ultima guerra mondiale, in Germania. Una volta tanto non si parla della Shoah, degli ebrei come giustamente se ne è parlato e se ne parla da decenni. Ma di un tipo di violenza molto particolare. È la storia vera del tredicenne Ernst Lossa, finito nel 1944, a 15 anni, tra le vittime del progetto di eutanasia per disabili in atto in Germania a partire dal 1940. Il ragazzo, sano e sveglio, ribelle e indipendente, è amorevole, deciso, generoso ma schietto e questo lo porta al conflitto con la politica di morte del dottor Veithausen che coscientemente persegue il programma dello sterminio dei malati per evitare che soffrano. La maggior parte sono bambini e ragazzi. L’ambiente è quello di un vasto edificio dove le suore cattoliche aiutano nell’ospedale che contiene persone con varie forme di malattia o di disabilità. La macchina da presa indugia volentieri sui ritmi meccanici della vita, sugli stanzoni e le camerate e affina la piscologia indagatrice sui personaggi, dal freddo scientifico e ipocrita medico ai collaboratori dei suoi crimini
Ci si può ribellare di fronte a questa situazione. Una suora lo fa e ne parla al suo vescovo che le consiglia di rimanere in quel luogo di morte e di agire in silenzio, accompagnando le persone alla morte. È un sottile atto d’accusa ai cosiddetti silenzi della gerarchia cattolica e di Pio XII che sempre ritorna (in verità i vescovi tedeschi parlarono). La religiosa comunque nasconde una bambina la cui fine è già decisa da una infermiera criminale dal sorriso dolce e spietato, la nasconde a suo rischio e pericolo nella propria camera con l’aiuto di Ernst, che malato non è, pazzo nemmeno, e ha capito tutto benissimo, da zingaro quale è. E qui il film innesta pure la denuncia delle stragi naziste non solo sugli ebrei ma pure sugli zingari e le persone”deformi” per preservare la purità della razza, secondo le teorie di Rosenberg. Scoppia un bombardamento, l’istituto ne è colpito: la suora muore insieme alla bambina. Ernst al funerale delle vittime ascolta il discorso ipocrita del dottore e lo rimprovera accusandolo di essere un criminale. Basta questo perché il medico decida la sua eliminazione: durante una notte, nel sonno, gli verrà praticata l’iniezione letale.
Il film è duro, chiaro, trasuda dolore da ogni parte ma suscita in noi anche un senso di forte ribellione per queste pratiche aberranti, continuate addirittura dopo la fine della guerra per qualche tempo e che contarono 5000 bambini uccisi dal 1939 ed in tutto 200 mila vittime in ossequio al decreto di Hitler in Germania e 100 mila nei Paesi occupati, facendoli morire con la denutrizione scientifica o nelle camere a gas o negli istituti psichiatrici con iniezioni letali.
Ciò che risulta incomprensibile è il fatto che gli autori dei delitti – il medico e l’infermiera – abbiano pagato solo con quattro e tre anni di carcere e poi siano stati graziati. La ricca e potente Germania di oggi ha almeno avuto il coraggio di inaugurare, ma solo nel 2014, a Berlino un luogo dedicato alle vittime dell’eutanasia. Il film è bello, delicato e duro al tempo stesso. La nebbia del titolo è soprattutto quella dei cuori ma non del ragazzino Ernst, di cui resta una foto meravigliosa, due occhi lucenti e coraggiosi. È lui il vincitore morale sul male e la ferocia nazista, ma anche sulla viltà dei collaborazionisti.
Il regista Kai Wessel, autore di altri lavori sul nazismo, ha la mano davvero felice raccontando con asciuttezza un dramma tremendo, finora troppo poco noto al grande pubblico, con un cast perfetto, in particolare il giovanissimo Ivo Pietzcher. Nessuna sbavatura né enfasi – anzi anche sogni giovanili -, parlando di un episodio i cui colpevoli hanno pagato molto poco. Forse qui la Germania ha dimenticato troppo presto le stragi pure degli zingari ai quali apparteneva Ernst e che il regista vuole far conoscere soprattutto ai giovani.