Cinema d’autore senza spazio
La 62a edizione del Festival di Cannes premia l'austriaco Michael Haneke con un apologo sulle radici del male e del nazismo. A bocca asciutta Vincere di Bellocchio.
Carta che vince, carta che perde. Al tavolo verde di Cannes, vincono Il nastro bianco dell’austriaco Michael Haneke (dove c’è anche un pezzo d’Italia con Andrea Occhipinti nel pacchetto produttivo), Palma d’oro, e Un prophète del francese Jacques Audiard, Gran premio della giuria. Gli altri sono premi di minor peso, ma sempre consistenti quando si mettono sul piatto della bilancia. Come il Premio della giuria, ex aequo tra Fish tank di Andrea Arnold e Thirst di Park Chan-wook, e il Premio per la miglior regia a Kinatay di Brillante Mendoza. Ai quali va aggiunto il Premio speciale della giuria assegnato all’ottantasettenne Alain Resnais, che, come ha dimostrato con Les herbes folles, continua a fare film. Migliori attori Charlotte Gainsbourg dell’Anticristo di Lars von Trier e Christoph Waltz di Inglourious bastards di Quentin Tarantino.
Lunga invece la lista dei perdenti, che annovera calibri come Ken Loach (Looking for ever), Pedro Almodovar (Los abrazos rotos), Marco Bellocchio (Vincere), Jane Campion (Bright Star), Ang Lee (Taking Woodstock). Ma tant’è, contro i verdetti delle giurie non c’è appello che tenga e verso l’unico grado di giudizio, secco e implacabile, c’è soltanto l’arma dei fischi. Che puntualmente non sono mancati.
Ma sia Haneke che Audiard erano tra i favoriti della vigilia: Michael Haneke (autore de La pianista e di Funny games) per l’intenso e coinvolgente bianco e nero del Nastro bianco, apologo politico e millenarista sulle radici del male e del nazismo ambientato in un villaggio della Germania dei primi Novecento; Jacques Audiard per il forte e incisivo Un prophète, romanzo criminale di un orfano di origine maghrebina, che, con l’aiuto della mafia corsa, diventa il padrino delle banlieux parigine.
Per quanto riguarda Vincere, Asia Argento, bocca della verità nella giuria presieduta da Isabelle Huppert, è stata esplicita: «Ne abbiamo parlato una sola volta». Perché il gioco della torre proseguisse impietoso.
Nonostante l’inaugurazione con Up di Peter Docter – un cartoon in 3D la cui strategia lega il vecchio (nonni e nipotini assieme come spettatori ideali, segno di un’alleanza dalle intese fra le più larghe possibili) al nuovo (il digitale) – le linee di tendenza che caratterizzano il festival si sono delineate fin dalle prime battute con L’Anticristo del danese Lars von Trier, con Thirst del coreano Pars Chan-wook, Kinatay del filippino Brillante Mendoza, Air doll del giapponese Kore-Eda Hirokazu, con Spring fever del cinese Lou Ye. Tutti all’insegna dell’épater le bourgeois, dove lo scandalo e la provocazione sono d’obbligo. Alla ricerca di un motivo di polemica, di curiosità morbosa, di chiacchiericcio e pettegolezzo che, in un impasto di orrore, sesso e violenza, rappresentato in modo estremo, possa alimentare e tenere vivo un interesse sempre più difficile da conseguire quando non c’è neppure lo straccio di un premio. Per il cinema d’autore e di qualità la strada si fa sempre più in salita.