Cina. Dove si fa la storia

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Ci sono tante Cine: quella dei pechinesi, dei tibetani, dei musulmani, dei mongoli, Hong Kong, Shanghai, ma anche Taiwan… C’è la Cina dei contadini e quella dei turisti, la Cina dei falsari e quella degli imprenditori… Un mostro d’un miliardo e duecento milioni di abitanti, un’economia vivacissima, un coacervo di diritti umani non rispettati o mal rispettati e di formidabili speranze per la dignità dell’uomo. C’è pure la Cina che confina con l’India, tanto che ormai si usa parlare di Cindia, due miliardi e mezzo di persone e una potenza politica, militare ed economica in espansione. La libertà presente L’inconfondibile profilo di Hong Kong – montagne e colline ricoperte di una peluria di vegetazione e selve di grattacieli affastellati gli uni sugli altri – è quasi una metafora di una città sopravvissuta per miracolo, tra liberalismo in economia e conservatorismo in campo sociale e religioso. A Kowloon, in Nathan Road, tempio del commercio totale, pranzo con un uomo d’affari, un cinese di Shanghai rifugiato con la famiglia all’epoca della rivoluzione culturale. Dopo il 1999 – mi spiega -, anno in cui è tornata alla Cina, la città non ha subito quegli sconvolgimenti che si temevano. La finanza è rimasta qui, assieme al rispetto della legge, un’eredità britannica. È rimasta la libertà d’impresa e di religione, mentre la maggiore presenza cinese si avverte solo nella polizia e nella amministrazione. La crisi economica degli ultimi anni, legata alla Sars, ha costretto la municipalità ad aprirsi alla Cina continentale, investendo nel turismo cinese, che ha iniziato ad affluire copiosamente. La sindrome ha unito in modo inimmaginabile il popolo cinese: bisognava isolare i focolai d’infezione per rispondere alle imperative esigenze delle autorità internazionali. In tre mesi ci si riuscì, e per la prima volta Hong Kong e la Cina continentale ebbero occasione di vivere e vincere assieme una sfida importante. Persino i pechinesi – ammette il mio interlocutore – hanno in quella occasione cominciato a pensare che gli abitanti di Hong Kong erano amici, fratelli nello stesso popolo, e che quindi bisognava aiutarli. E hanno capito che l’ex colonia britannica è indispensabile per permettere al Paese di aprirsi e di liberalizzarsi. Anche perché in Cina si è ormai coscienti della necessità di un vero rinnovamento; bisognerà spiegare in particolare Tienanmen, l’intervento certo illiberale che ha però forse evitato una vera implosione del sistema. Lo sviluppo economico cinese è avanzato grazie alle privatizzazioni: solo 500 imprese sono rimaste in mano allo stato, roba da non credere. Uno sviluppo che ha il suo modello in Hong Kong che pare un unico grande supermercato in cui si vende tutto. Tutto tranne la terra, proprietà della municipalità, compresa quella rubata al mare. Se Central è un quartiere pulitissimo e tutto vetro e metallo, Kowloon è più sporco e il mattone e l’intonaco prevalgono, ma spesso in stato d’abbandono: Hong Kong è questo e quello, concordi nel far grande una città che non è occidentale, ma che non è neppure del tutto cinese. È un ponte. La storia che si fa La Cina è un Paese ma è anche un continente che in fondo potrebbe essere autosufficiente. Tant’è vero che per secoli è rimasta chiusa in sé stessa. Oggi è uno dei Paesi più aggressivi, economicamente parlando, esistenti al mondo, con tassi di crescita a due cifre. Un’esplosione che certamente farà fatica a durare, ma che per il momento pare sempre più credibile. Assieme a Hong Kong e Shanghai, Pechino ne è la vetrina. Poche le tracce del vecchio comunismo, poche le effigi di Mao. È più presente la mascotte dei giochi olimpici del 2008, che tanti prevedono darà il colpo finale al collettivismo. Sull’immensa spianata della piazza Tienanmen c’è la consueta folla vociante e allegra: paiono tutti contadini in visita alla capitale. In effetti il 90 e più per cento dei visitatori è cinese e lo si vede: si siedono sui talloni con agilità, non si sottomettono a formalità, si allineano in una chilometrica fila dinanzi al mausoleo di Mao Tsedong. Contadini e tanti ex-contadini dai tratti somatici assai diversi. È l’altra Cina, quella che continua a vivere ignara o quasi del consumismo; quella che vive con pochi dollari al mese; quella costretta a lavorare in fabbriche in condizioni igieniche precarie; quella che non può generare più di una femmina per famiglia, tanto che la Cina è il solo Paese al mondo con più uomini che donne… La piazza sembrerebbe aperta sul mondo, seppur chiusa dai palazzi del potere passato e presente: qui non c’è bisogno d’altro, qui c’è tutto. Mi dice un diplomatico italiano da tempo residente a Pechino: I cinesi sono ben più agguerriti dei giapponesi nel copiare ogni sorta di prodotto: copiano persino i progetti architettonici, i profumi, la biancheria intima. La legge del copyright, uno dei baluardi costruiti dalla Vecchia Europa a difesa della sua cultura, qui è poco più di carta straccia. O poco meno. La Cina, paradossalmente, neppure più si pone come un problema per noi occidentali, perché in realtà ha già vinto la sua battaglia. Anche nel passato la Cina ha avuto un grande peso, solo che noi europei non ce ne eravamo accorti. Nonostante Marco Polo, Francesco Saverio e Matteo Ricci, perché si trattava di un altro pianeta. Alla Città proibita i tetti spioventi, le lacche rosse, le porte trapuntate di smisurati bottoni d’ottone e d’oro raccontano le civiltà passate della Cina e la sua grande capacità di assorbire le culture con le quali via via si incontrava, senza tuttavia mai rinunciare alle proprie prerogative e alle proprie tradizioni. Ancor oggi accade così. L’oggi in cui si distruggono in poche settimane interi quartieri della capitale dalle tradizionali abitazioni ad un solo piano per costruire immensi centri commerciali ricoperti di luminarie pacchiane e fastidiose. I cantieri sono aperti giorno e notte, sette giorni su sette, a ritmi pazzescamente elevati e a paghe altrettanto pazzesche, ma verso il basso. Stakanov poteva nascere a Pechino! Il rischio dell’oblio della tradizione e del trionfo del consumismo c’è.Ma la Cina è forte nella tradizione conservata dai suoi popoli. Quel popolo che si incontra ad esempio nel parco del Tempio del cielo.Migliaia di persone. Portici e piazzole sono animati da gente che canta, che balla, che gioca, che fa ginnastica. Gente anziana, soprattutto, che dimostra quanto la vecchiaia non debba essere vissuta come una condanna, come un’uscita ingloriosa dalla vita pubblica, ma al contrario come una possibilità, finalmente liberata, di vivere nella serenità e nella calma. Questa gente, penso, conserverà la Cina. Il tempio capitalista Impatto forte, quello con Shanghai, 17 milioni di abitanti, una storia in fondo breve, un passato coloniale ad opzione plurima, uno sviluppo economico oggi al 20 per cento annuo, un’esplosione edilizia che non ha eguali al mondo. È la città dei grattacieli, di tutte le fogge e di tutte le altezze. Ce ne sono a bombetta, a foulard, a punta, a palla, a bustina, a infiorescenza, a piume… Gli architetti dal mondo intero vendono i loro progetti ai cinesi, che hanno soldi e mano d’opera a buon mercato. Shanghai, città del business, presta l’attenzione dovuta anche ai suoi edifici più antichi, sul Bund. In questo modo la città cerca di attirare turisti a frotte, tanta valuta pregiata e riserve con le quali il governo cinese sta comprando il debito statunitense. Anche questa può essere una potente arma politica. Shanghai ha il concentrato di popolazione di Hong Kong e la vastità dell’abitato di Pechino. Una miscela esplosiva, se non fosse per la straordinaria disciplina del popolo cinese. Dalla cima del più alto grattacielo della città lo spettacolo è vertiginoso, si ha l’impressione che un gigante stia giocando coi birilli e che la gravità umana sia più relativa che altrove. Sotto casa si estende uno dei mercati più conosciuti dai turisti: il mercato dei falsi, quello dove si vende a prezzi stracciati la merce contraffatta di marca: Rolex, Mont Blanc, Vuitton, Prada… Qualche giorno fa è apparsa pure una Ferrari falsa! Tutto passa di mano in mano a pochi euro o dollari, a circa un centesimo del prezzo che si paga per i prodotti originali. Si contratta la merce come nei Paesi arabi, anche se qui tutto è rapidissimo, mentre nei suk del Cairo o di Algeri il tempo è un elemento essenziale della trattativa. Qui tutto corre via in pochi secondi. Un giovane e acculturato commerciante di Rolex falsi si lamenta: Ci cacciano via di qui, perché tra un mese al posto di questo mercato costruiranno tre grattacieli. Pechino ha ceduto alle pressioni dei vostri governi; ma da questo mercatino nasceranno altri dieci o venti mercati in giro per la città. È la legge del libero commercio, cioè della domanda e dell’offerta. Lo sviluppo armonico Davanti ad un avveniristico centro commerciale, tutto luci, ammiccamenti e pubblicità ufficiali, l’interrogativo essenziale di questo viaggio riprende forma e colori: come può convivere una società comunista, retta ancora da un partito forte e onnipotente, con una società di mercato spietata e tragicamente avviata ad accrescere le disuguaglianze sociali? Qui in Cina si sta cercando una nuova via tra materialismo dialettico e capitalismo liberista, spiega un commerciante di vera pelletteria; senza immaginare che le due vie alla fine rischiano di produrre gli stessi effetti di rarefazione dello spirito umano. Rifletto che servirebbe l’apporto di una cultura della conciliazione e dello sviluppo per salvaguardare le diversità ed evitare le ingiustizie, preparando un mondo di vicinanze. Certamente il materialismo dialettico e il capitalismo liberista hanno in sé le energie atte a favorire una tale società armonica, direi confuciana; ma l’apporto della religione è un elemento indispensabile per non asservire l’uomo all’uomo. O alle cose. Uniti nella diversità è un celebre detto cinese, che vuol significare quanto sia importante nella complessa realtà cinese riuscire a tenere assieme i diversi ambiti e le diverse etnie, anche le diverse religioni. Il presidente Hu Jintao ha usato questa espressione recentemente, assieme ad una seconda espressione tradizionale confuciana: Serve uno sviluppo armonioso della società, intendendo con ciò il rispetto per ogni gruppo, e quindi anche per la Chiesa cattolica. Il partito comunista, cioè lo Stato, oggi sente di dover rappresentare anche industriali, operai, intellettuali, contadini, buddhisti. Anche i cristiani, di cui non si potrà non scrivere.

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