Cima e Bassano. La mitezza in pittura

Conegliano e Bassano celebrano i grandi artisti del Cinquecento. In due rassegne, lo sguardo sereno sulla vita.
Mostre

Conegliano brilla ancora sul colle, come Giambattista Cima l’ha dipinta nelle sue tavole. Nonostante le insidie della modernità, il paesaggio è rimasto fitto di alberi, di acque; la luce è quella chiara, i colori fulgenti, che Cima, da Venezia dove viveva, ha fatto rivivere nostalgicamente. A cinquant’anni dall’ultima rassegna – ma sembra un secolo! – sfila un gruppo (per fortuna non folto) delle sue opere. Di Cima colpisce lo sguardo. Non è fuori dal tempo, come nel conterraneo Giambellino. I suoi personaggi sono ragazze piene di salute a posare da madonne, gli uomini giovani o anziani, guardano e ci guardano con occhio tranquillo. Ispirano fiducia.

Il mondo di Cima, ben ordinato nelle Sacre Conversazioni, emana senso della misura: armonia. Egli ama farci scoprire l’unità fra uomini e natura. Non è solo una visione umanistica, è sguardo cristiano. Nella Madonna dell’arancio (circa 1497) i santi parlano sobriamente sotto l’albero; ma dietro si slarga la collina di Conegliano col castello e il mondo della campagna con la sua gente discreta, mentre il cielo si colora di un azzurro temperato, come tutti i cieli di Cima. Egli non fonde figure e natura, le lascia distinte, l’uomo viene in primo piano: ma lo spirito che lega le due realtà è quello di sentirle una cosa sola, unite dal colore brillante e dalla luce limpida. Così, nella Pala di San Michele di Parma, oltre il gruppo sacro, dietro all’angelo guerriero di sublime eleganza – che “pesa” le anime – corre l’orizzonte dei pomeriggi primaverili veneti, quando la luce fa festa nelle persone e nelle cose, come parte di una stessa vita.

Cima non si allontana da questa visione, non segue Giorgione o Tiziano. Resta fedele a sé stesso, alla poesia “virgiliana” della natura, ad una mitezza di uomo e di artista, fino alla morte nel 1517. La sua arte ci riconcilia ancora con noi stessi e la creazione.

 

Come quella di Jacopo da Ponte, detto il Bassano – poche decine di chilometri da Conegliano –, la cittadina dove, in un progetto triennale di mostre, si celebrano i 500 anni dalla sua nascita.

Jacopo si muove raramente da casa, ma ha uno sguardo ampio. La sua azienda familiare fornisce pale d’altare per le chiese dei paesi vicini, mettendo in “sacra conversazione” santi rustici fra monti rannuvolati, albe talvolta temporalesche, o oscurità da cui scende un fiotto di luce. Poeta della natura e della gente rurale, come Cima, ma più “romantico”, Jacopo ha un lungo percorso artistico: dal manierismo a Veronese e Tiziano, fino al precaravaggismo delle ultime opere, sul 1590. Un senso argenteo del colore, un tono autunnale della luce riempiono le tele, fitte di selve e casolari, di fatiche degli umili, di santi in composta signorilità. Il Riposo nella fuga in Egitto (1547) è una pausa in campagna: panni per il bambino, cani, ragazzi, un asino, sullo sfondo del massiccio del Grappa che fugge, bianco dopo il temporale. Il San Giovanni Battista (1558) è una assorta “creatura del bosco”: tinte fredde, pose “contrapposte”, ma nulla tolgono alla fondamentale calma. Nell’Annuncio ai pastori (1560), Jacopo propone addirittura una donna che munge la mucca – in primo piano! –, mentre un angelo bambino sfonda il notturno lunare: è la religione del quotidiano. Fino a quel Battesimo di Lucilla – forse il capolavoro – con l’alba prima del sole che biancheggia in punte d’argento tra fondali classici e brani di un canestro, di un cane; o all’Agonia di Cristo (1578) con le figure nate da sobbalzi luminosi. Romantico pacato, Jacopo, pittore più settembrino che primaverile, ci riconcilia anch’egli, come Cima, con la vita.

 

Cima da Conegliano. Poeta del paesaggio. Conegliano, Palazzo Sarcinelli, fino al 3/6 (catalogo Marsilio).

Jacopo Bassano e lo stupendo inganno dell’occhio. Bassano del Grappa, Museo Civico, fino al 13/6 (catalogo Electa).

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