Cile: un Paese che vuole restare in piedi

Dieci anni fa, una bandiera scucita e infangata è stato il simbolo di una nazione che si riprendeva dalle distruzioni provocate dal terremoto. Oggi lo stesso simbolo rappresenta la possibilità di cambiare l’ordine sociale ed economico ingiusto in pace ed in democrazia
Bruno Sandoval e la bandiera cilena dopo il terremoto

Il 27 febbraio 2010, un terremoto di 8,8 gradi Richter seguito da tsunami sconvolse la vita di 17 milioni di cileni, le loro case, i loro beni, le speranze e i sogni di tanti. 548 persone morirono. Circa 24 ore dopo la catastrofe, un fotografo di Ap che si muoveva per Pelluhue, nel sud, scorse tra i resti delle case spazzate dalle onde del mare un uomo che rovistava nel fango e la desolazione. Era Bruno Sandoval, un artigiano che sbarcava il lunario estivo in quella località marina. Era nel luogo in cui teoricamente c’era la casetta che occupava in quelle settimane, della quale però non restava niente. A un certo punto la sua vista venne attratta dal puntino rosso di un tessuto, che prese a recuperare. Nelle sue mani apparve una bandiera cilena «sporca, scucita, ma ancora intera – racconterà in seguito –. La presi a scuotere ed inizia a riflettere. La tenni per un po’ nelle mani. Pensai che era un segno che il Cile era ancora in piedi con la bandiera in alto. Eravamo interi e potevamo andare avanti», dirà Bruno.

In quel momento, Bruno sentì un fischio. Era il fotografo che passava di li, davanti al quale spontaneamente alzò la bandiera. Quella foto fece il giro del mondo. Apparve sul New York Times, sul The Boston globe, nei media latinoamericani ed europei. Non solo, ma da allora questa bandiera si è trasformata in un simbolo: era presente quando vennero riscattati dalle viscere della terra i 33 minatori rimastivi prigionieri; era insieme alla nazionale di calcio ai mondiali in Sudafrica… Oggi la conserva una azienda immobiliare e fa mostra di sé nei loro uffici. Nonostante le incertezze e le paure, il Cile si rimise in piedi nonostante le 500 mila case danneggiate, gli ingenti danni alle infrastrutture per 30 miliardi di dollari, il 15% del Pil.

Oggi l’incertezza avvolge nuovamente il Cile. Non la produce una catastrofe naturale, ma il modo in cui l’economia e la politica hanno gestito l’ordine sociale ed economico sorto a partire dall’ultima dittatura militare. Una solida impalcatura giuridico-costituzionale impedisce di modificare la sostanza di un sistema ingiusto e abusivo, con salari miseri da una parte e gruppi industriali con utili succosi dall’altra. Un vero e proprio tsunami sociale. Per modificarlo occorrono maggioranze speciali che la destra non è disposta a concedere, perché teme che l’uguaglianza si trasformi in egualitarismo populista. È la ragione per la quale si è ottenuto che ad aprile un plebiscito chiederà se i cileni vogliano o no una nuova costituzione, che non avrà più il peccato originale di essere stata imposta da una dittatura e di essere la serratura inviolabile di tale sistema.

Ma in queste ore l’ansia non la genera l’esito del plebiscito, quanto la ripresa che tutti annunciano delle proteste e con esse, è possibile, la violenza degli estremismi di sinistra e di destra che seguono la logica del «tanto peggio, tanto meglio», nonostante che l’immensa maggioranza protesti in modo pacifico. Se è vero che dal 18 ottobre in avanti il Paese ha presto coscienza di dover porre in marcia cambiamenti strutturali, la violenza si è portata via centinaia di milioni di dollari in edifici e strutture pubbliche distrutte e attività economiche saccheggiate e incendiate. È chiaro che nelle piazze scendono anche settori sociali a tal punto fuori dal sistema che avvertono di non aver niente da perdere. Un mix di esclusione, risentimento sociale e delinquenza comune.

Esiste una grande irritazione nei confronti del governo del presidente Sebastián Piñera, oggi con appena un 4% di approvazione, che non ha prodotto gli attesi cambiamenti di sostanza nell’agenda sociale. Il Cile dimostra, ancora una volta, che senza un’economia capace di ridistribuire equamente la ricchezza, nessuna democrazia è realmente tale. Ma che per cambiare queste situazioni occorre stringersi attorno ai valori di cui la democrazia è sintesi, primo fra tutti la non violenza. Come 10 anni fa, quando tutti si sentirono rappresentati da quella bandiera sporca e scucita. Sarà il modo per seguire in piedi.

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