Cile, la “nuova normalità”
In Cile comincia una settimana chiave dopo sette giorni di stato d’emergenza, di coprifuoco in varie città, nonostante i quali centinaia di migliaia di cittadini hanno continuato a manifestare pacificamente, nell’enorme maggioranza dei casi.
Sabato un milione e duecentomila persone si sono riversate nel centro di Santiago senza bandiere politiche. Ci sono stati, è vero, saccheggi, scontri, distruzioni ed anche il doloroso bilancio di 20 morti, centinaia di persone ancora detenute e la reazione delle forze dell’ordine che spesso ha ecceduto il limite tollerabile da qualsiasi stato di diritto. Ma si è trattato di minoranze esigue, che seppure hanno fatto temere il caos, sono state spesso isolate dagli stessi concittadini, scesi con i gilet gialli a difendere negozi e quartieri.
Il presidente Piñera ha chiesto le dimissioni a tutto il suo gabinetto e si attende un rimpasto di governo da un momento all’altro. Si sta lavorando a un’agenda sociale, e nel frattempo sono stati sospesi gli aumenti dei mezzi pubblici e della luce. Il governo ha certa fretta di tornare alla normalità e lunedì notte dovrebbe cessare lo stato d’emergenza.
Ma bisognerà chiedersi quale sia la normalità. Lo stesso presidente e vari analisti hanno chiesto scusa per non aver “visto” i problemi e le disuguaglianze strutturali che hanno portato milioni di persone all’esasperazione.
Eppure i dati ufficiali, tutti verificabili nei siti web dei ministeri ed i paper prodotti da entità come la Ocse o l’agenzia Onu per lo sviluppo (Unpd), che parlavano delle cocenti sperequazioni non potevano non essere conosciuti, soprattutto da esperti e consulenti dei settori politici.
«Non immaginavamo che potesse disturbarvi tanto la disuguaglianza», ha ammesso un conosciuto giornalista. Un intero establishment, politico ed economico, non solo ha creduto nel racconto del modello economico di successo, ma non ha saputo interpretare la sommatoria di tariffe sempre più elevate, di servizi essenziali deficitari, che alla fine negano l’accesso a buona parte della popolazione, accompagnati dagli abusi dei settori più abbienti che evadono le tasse o si avvalgono della legge per eluderle.
Una delle peculiarità del sistema tributario consente di pagare le tasse non sugli utili prodotti ma su quelli ritirati. Circa 10 mila appartenenti al settore più ricco del Paese si avvalgono dei benefici fiscali delle piccole aziende, formandone una fittizia con la moglie o un parente, pur accumulando introiti di 300 o 400 mila euro all’anno.
Il 20% del Paese che accumula il 72% della ricchezza non ha “visto” questo stato di cose. Ma, in realtà, fino a ieri l’ha giustificato criticando “l’invidia sociale” di coloro che invece patiscono lo scandalo degli effetti. E non ha nemmeno visto i quartieri periferici degradati delle grandi città, le sacche di marginalità dalle quale sono scaturiti migliaia di persone che si sono dedicate a saccheggiare anche minuscoli commerci.
Un mondo parallelo che ha altri codici, altre leggi ed altri bisogni e che ha sentito che non aveva niente da perdere sfidando la legge. Come sarà possibile integrare questi settori alla vita civile?
Infine, c’è ancora un altro nodo da sciogliere: se quello iniziato è un processo, chi potrà condurlo in porto? Di certo, non una classe politica priva di prestigio, all’ultimo posto nel ranking della fiducia nei sondaggi. Lo potrà fare una società civile disaggregata, debole e poco omogenea, non di raro cooptata dall’establishment? Gli effetti di una delusione tra i milioni di persone che oggi sperano in un cambiamento potrebbero essere nefasti. La questione allora non è tornare presto alla normalità, ma di non perdere l’occasione per costruire una “nuova normalità”.