Cile: fondi pensione in crisi
Il sistema pensionistico cileno venne riformato, e letteralmente imposto, nel 1980, durante la dittatura di Augusto Pinochet. Di esso gli ideatori ne cantarono le lodi in tutti i modi possibili. Ma, nel dubbio, il generale si guardò bene di imporre alle forze armate e di polizia il sistema. Aveva ragione, perché ormai nessuno nega che si tratti di un pessimo sistema. Circola nelle reti sociali – oggetto di ironia – la prima pagina del giornale che nel 1990 assicurava che nel 2020 i cileni avrebbero riscosso una pensione uguale al 100% del salario. Oggi non solo in generale la pensione è in genere un 30 o un 40% dello stipendio, o meno, ma il sistema è da tempo nell’occhio del ciclone.
Sapendo che presto o tardi avrebbe lasciato il potere, per essere sicuri che il modello sociale ed economico non sarebbe stato modificato, Pinochet assicurò il sistema con una costituzione dotata di ben 14 aree che garantiscono l’assetto di fondo e queste per essere modificate hanno bisogno di maggioranze speciali, difficilmente ottenibili. In tal modo, una volta tornati, nel 1989, alla democrazia, il settore che sosteneva Pinochet, con forti interessi industriali, si assicurò che ben poco sarebbe cambiato dell’assetto sostanziale dato al Paese.
La privatizzazione delle pensioni, lasciando allo Stato solo un limitato intervento nei casi di assistenza sociale, ha disposto che le entità che amministrano i fondi (cinque o sei in tutto), ricevono il 10% sottratto a ogni stipendio e col quale si costituisce un risparmio individuale, dal quale prima ricavano la loro commissione, dopodiché investono i fondi in titoli e in depositi, per poi aggiudicarsi una parte degli utili ottenuti. L’irritazione generale nei confronti del sistema sta nel fatto che, da una parte, queste entità private lucrano sui risparmi dei lavoratori, registrano lauti guadagni, ma in realtà questo successo non si riflette sulle pensioni, anche per il bassissimo livello salariale nel Paese. Ma non solo.
Gli investimenti dei fondi pensione sono anche una fonte importante di credito per gli stessi gruppi industriali, pochi, che determinano l’economia nazionale, ed anche i livelli salariali. Il circolo si chiude, dunque, non solo si negano pensioni decenti, ma il sistema si beneficia proprio delle risorse che invece di dare una qualche garanzia di futuro, lo riempiono di incertezze.
Che il sistema sia abusivo ed ingiusto, ormai lo hanno riconosciuto tutti, lo dimostra il fatto che in appena 15 giorni il Parlamento ha varato il progetto di legge che consente il ritiro di un 10% dei risparmi, per far fronte alla crisi scatenata dalla pandemia di Covid-19. In modo inatteso, un nucleo importante di deputati di destra, appartenenti alla coalizione capitanata dal presidente Sebastián Piñera, ha disobbedito alle sue indicazioni contrarie ad approvare il progetto. I dissidenti hanno considerato che la fedeltà al presidente non poteva includere anche mettersi contro i propri elettori, irritati dai ritardi e le inefficienze del governo per far fronte alla crisi.
Non a caso, la popolarità di Piñera è al lumicino proprio per la sua scarsa capacità di comprendere il dramma di chi oggi ha perso un lavoro e non sa come fare per arrivare a fine mese, magari in piena quarantena. Il risultato è stata una sonora batosta in parlamento, col governo messo in minoranza da chi ha seguito… semplicemente il buon senso in un momento d’emergenza.
La sconfitta ha provocato un rapido rimpasto di governo, che difficilmente potrà riportare la fiducia nei confronti del presidente, sempre più solo e sempre più incapace di cogliere la realtà nella quale vive il Paese. Inoltre, l’episodio mette anche la prima pietra di un processo che ha reso evidente un fatto: se i fondi pensione sono proprietà individuali è quanto meno discutibile che i lavoratori debbano rassegnarsi a che siano usati per beneficiare altri e non se stessi.
Una ultima annotazione. Gli ideatori del modello economico cileno, neoliberista ad oltranza, formavano un gruppo di economisti formatisi (ahimè) presso la Pontificia Università Cattolica di Santiago e, successivamente, presso la “scuola di Chicago” e furono pertanto discepoli di uno dei maggiori neoliberisti del XX secolo, Milton Friedman, Nobel per l’Economia nel 1976. Fu tale gruppo a mettere nero su bianco le riforme economiche necessarie per avviare in Cile alla modernizzazione ed allo sviluppo… secondo la tesi per la quale la crescita economica è un fattore necessario e sufficiente per ottenere il benessere generalizzato. Un postulato smentito dalle verificazioni empiriche ad ogni latitudine, perché non tiene conto di come la ricchezza prodotta viene ridistribuita; non solo, ma i suoi sostenitori credono ciecamente nella capacità del mercato di realizzare tale operazione senza bisogno di correttivi, considerati perniciosi per l’economia.
È evidente come tale postulato abbia incrementato le disuguaglianze ovunque. Mentre prima erano una prerogativa dei paesi in via di sviluppo, oggi queste sono drammaticamente constatabili anche nei Paesi centrali.
Quella del sistema pensionistico è parte dell’insieme di riforme dell’economia contenute nel documento – conosciuto come “il mattone” – redatto per il regime di Pinochet. Non a caso, vari di questi economisti furono ministri in detta epoca. In un recente documentario, il gruppo di economisti è stato intervistato proprio per ricostruire la nascita di quel documento fondamentale per il sistema economico imposto durante la dittatura. Una delle domande finali poste agli intervistati è se tali riforme sarebbe stato possibile praticarle in democrazia. Nessuno ha avuto dubbi nel rispondere decisamente: «Assolutamente, no». Si comprende, dunque, da dove è scaturita la protesta sociale che ha scosso il Paese negli ultimi mesi dello scorso anno.