Cile, il diritto di vivere in pace
In Cile, e in particolare a Santiago, si manifesta da ormai da settimane. Iniziata come movimento spontaneo di studenti liceali contrari all’aumento delle tariffe dei mezzi pubblici, la protesta è diventata la più grande che il Paese abbia vissuto dal ritorno alla democrazia, nel 1990.
La crisi, lontana dall’essere davvero risolta, ha continuato ad oscillare tra un estremo e l’altro: un giorno il presidente Piñera dichiarava guerra a un nemico potente ma invisibile, il giorno dopo prometteva un ampio pacchetto di riforme economiche; in alcuni quartieri i manifestanti occupavano le piazze dando vita a spontanee feste di massa, in altri la mobilitazione veniva repressa brutalmente con lacrimogeni e manganelli; e mentre Santiago e le altre città del paese provano a tornare alla normalità riaprendo a tratti la metropolitana devastata dai primi giorni di scontri, in molti non sono ancora tornati al proprio lavoro.
Come santiaguino d’adozione, in città da oltre un anno, mi sembra che alcune dicotomie aiutino a capire meglio cos’è successo negli ultimi giorni e, soprattutto, diano alcuni segnali per capire cosa potrebbe succedere nei prossimi giorni. La prima dicotomia è tra paura e speranza. La paura è quella generata dalla risposta militare alla protesta: con i soldati a pattugliare strade e supermercati, coprifuoco decretato per la prima volta dalla fine della dittatura e fatto rispettare con arresti sommari e spari non solo a salve, violazioni dei diritti umani e morti fatte conoscere grazie ai social network. Allo stesso tempo, gli ultimi sono stati giorni di speranza. La speranza della piazza, che testardamente ogni giorno torna a riunirsi alla stessa ora negli stessi luoghi, ma ogni volta con un numero maggiore di manifestanti. Come a Santiago, dove si calcola che siano scesi in piazza circa un milione di cittadini. Le dimostrazioni, dai luoghi emblematici e dai quartieri popolari della città , sono passate alle zone benestanti della capitale e alle altre principali città del paese. La diffusione a macchia d’olio delle proteste ha generato sempre più entusiasmo nei manifestanti, fiduciosi che un vero cambiamento fosse possibile.
La seconda dicotomia ha a che fare esattamente con cambiamento e immobilità. Le proteste del Cile sono state provocate dalla profonda disuguaglianza del paese. In un sistema costruito seguendo soltanto i dettami dell’economia di mercato, in cui la ricchezza è distribuita in modo sbilanciato e determina le opportunità a disposizione o meno dei diversi gruppi sociali, la classe alta e la classe medio-bassa vivono in mondi paralleli. Mondi in cui sono diversi l’istruzione ricevuta, i servizi sanitari a disposizione, le pensioni accumulate nel corso di una vita.
La scuola è forse l’esempio più lampante: secondo i risultati del test Pisa, nelle scuole pubbliche i risultati pubblici sono gli stessi del Messico; nelle scuole sovvenzionate, gli stessi del Portogallo; nelle scuole private, gli stessi della Finlandia. Per far rientrare le proteste, il presidente Piñera ha promesso molte riforme, riguardanti maggior tassazione sui redditi più alti, innalzamenti di pensioni e salari minimi, miglior assistenza sanitaria e migliori condizioni di lavoro (è di oggi l’approvazione delle 40 ore di lavoro settimanali). Molti però temono che si tratti soltanto di riforme di facciata, che a lungo termine potrebbero generare effetti opposti a quelli sperati e aumentare il potere nelle mani di assicurazioni sanitarie, grandi gruppi economici e fondi pensionistici.
La terza dicotomia infine riguarda una società disuguale che, proprio nei giorni delle proteste, si è ritrovata più unita. Le manifestazioni sono iniziate nei quartieri popolari di Santiago ma in breve tempo si sono estese alle zone più ricche. Nello stupore di una società che sa di essere fortemente divisa, il cuico e il flaite – la persona di classe alta e di classe bassa – si sono trovati a manifestare contro lo stesso sistema. In questo modo, il racconto delle proteste ha smesso di concentrarsi solo su isolati atti vandalici e ha iniziato a raccontare le rivendicazioni di fondo dei manifestanti, che chiedono un nuovo patto sociale per il Cile. Molti sentono che si tratta di un momento storico per il Paese, che aiuterà a rompere le barriere tra classi e a generare i cambiamenti necessari per superare la storica segregazione sociale. Altri invece temono che, passati i giorni di festosa protesta, le differenze sociali torneranno ad operare come sempre, facendo perdere la preziosa occasione di generare una società in cui ci si possa guardare alla pari indipendentemente dal proprio cognome o dal quartiere in cui si vive.
Il Cile in questi giorni rivendica quello che Victor Jara, cantautore cileno ucciso dalla dittatura militare, chiamava el derecho de vivir en paz – il diritto di vivere in pace. Un diritto che passa dal ritorno alla normalità, richiamando i militari dalle strade e affrontando le proteste di questi giorni come una questione politica invece che come problema di ordine pubblico. Un diritto che, in futuro, passerà dalla costruzione di una società più giusta, come quella che si è ritrovata in piazza in questi caldissimi giorni di fine ottobre.