Cile 40 anni dopo Pinochet
L'11 settembre 1973 le forze armate cilene, sotto la guida del generale Augusto Pinochet e la supervisione della Cia, (come hanno rivelato i documenti segreti ora resi pubblici), portarono a compimento un cruento colpo di Stato. Durante i brevi scontri armati, attorniato dai pochi fedelissimi, perdeva la vita il presidente Salvador Allende che, asserragliato nel palazzo de La Moneda, l'edificio sede del governo nel centro di Santiago, e bombardato dall'aviazione, preferì togliersi la vita.
Seguirono anni oscuri, che lasciarono un velo di tristezza negli occhi e nel cuore di tanti: tremila i morti della repressione armata, un migliaio i desaparecidos, varie altre migliaia i torturati nelle infami sale clandestine, i perseguitati e quanti scelsero l'esilio per timore di diventarne vittime.
Quarant'anni dopo, il dibattito sui sedici anni di governo di Pinochet è ancora vivo. Si può asserire che ormai la stragrande maggioranza ha una posizione chiara in merito alla negazione dei diritti fondamentali e, soprattutto, la violazione dei diritti umani, fatta forse eccezione per la destra più tradizionale. Vent'anni fa non si poteva dire lo stesso.
Il dibattito resta acceso sulle circostanze che portarono al golpe e sulle responsabilità dei partiti che direttamente o no contribuirono al fallimento del governo di Allende. Per alcuni analisti, all'interno della stessa coalizione formata da socialisti e comunisti, la Unidad popular, le posizioni estremiste contribuirono a suscitare i timori sull'uso della violenza rivoluzionaria che in quegli anni incendiava i discorsi della sinistra, anche se ciò avveniva un po' ovunque.
I democratici cristiani sono spesso accusati di aver appoggiato la soluzione militare, anche se il senatore Andrés Zaldivar ci tiene a segnalare: «Facemmo di tutto per evitarlo, il partito non appoggiò il golpe, solo a cose fatte si offerse di collaborare credendo che sarebbe stata una breve parentesi della continuità democratica», come del resti avevano annunciato i militari fin dai primi momenti.
Si trattava dunque di un Paese diviso in tre terzi, come scrive il giornalista Guillermo Sandoval, dove a un certo punto la destra prevalse, assicurando, in cambio del potere, la fine del caos (continui scioperi e manifestazioni, clima di violenza) e l'efficienza economica (scaffali dei supermercati vuoti, inflazione galoppante che in certi settori del mercato arrivava al 600 per cento annuale).
L'altro dibattito acceso riguarda il modello economico instaurato in Cile durante la dittatura e che, con poche correzioni, è tutt'ora vigente. Chi crede che le dittature in America Latina fossero solo espressione dell'autoritarismo antimarxista di destra, si sbaglia di grosso. Esse installarono anche un modello economico capitalista che continuò a favorire le oligarchie che già dominavano il mercato e le grandi multinazionali, in sintonia con il liberalismo economico predicato dai cosiddetti "Chicago boys" e applicato successivamente dal "Washington consensus".
In Cile ebbe particolare eco la dottrina applicata da Margareth Thatcher nel Regno Unito, in base alla quale: «La società non esiste, esiste la somma degli individui», il che significa che non esistono interessi collettivi e che ciascun cittadino si trasforma in utente. Il sistema sanitario e educativo del Paese cileno, con una fortissima e carissima componente privata e una debole presenza statale, oggi fortemente criticati dalla maggioranza della popolazione, sono fedeli esempi di tale mentalità.
Ne seguì un'economia sicuramente molto più efficiente di tante altre nella regione latinoamericana, basata sulla competenza e sul minimo intervento dello Stato, ma anche la più diseguale a tutt'oggi, non solo del subcontinente, ma anche dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse).
Il reddito del 10 per cento più ricco dei cileni è 27 volte superiore a quello del 10 per cento più povero e lo 0,11 per cento della popolazione percepisce il 30 di reddito. Secondo dati della Banca mondiale il Pil procapite di circa 15 mila dollari l'anno suppone uno stipendio medio di 4 mila euro al mese, quando in realtà siamo intorno ai 500/600 euro al mese o poco più. «Il modello cileno è derivato da una disuguaglianza e da una segregazione acuta» è il commento di alcuni intellettuali intervistati per il libro "L'altro modello" (edizione per la Decrescita felice).
A quarant'anni da quel fatidico 11 settembre, è possibile dialogare su questi temi, «anche se non ci troviamo d'accordo», come sottolinea il democristiano Zaldivar. Ne è una riprova che il centrosinistra e il governo retto dalla destra abbiano celebrato separatamente l’anniversario. Alcuni leader politici e alcune istituzioni come la Corte Suprema e l'assoziazione che riunisce il 70 per cento dei magistrati hanno chiesto scusa per azioni o omissioni durante la dittatura. Un elementare senso di giustizia dice che per rinconciliarsi è importante chiedere perdono per gli errori commessi. E sebbene ancora non si sono sopiti i sospetti reciproci tra i "tre terzi" della comunità politica, va pure detto che il Cile ha potuto vivere la transizione che è seguita al ritorno alla democrazia sulla base di un consenso minimo e senza conati autoritari. Dal 1989 si sono succeduti tre governi di centrosinistra e uno di destra senza il pericolo di rotture.
La stabilità istituzionale cilena è un esempio per la regione e ne fa uno dei Paesi più ammirati. Forse il maggiore obiettivo politico è quello di conquistare alla politica i quattro milioni di giovani che in questi anni, pur avendone diritto, non hanno mai fatto uso del voto. Forse questa latitanza si deve al fatto che la passione per la costruzione del bene comune non viene da sola, essa si alimenta della percezione che esistono interessi collettivi e obiettivi comuni prima ancora che individuali. Dunque, probabilmente, va prima smantellato il paradigma sul quale la dittatura ha costruito la realtà socio-economica cilena.