Cieli nascosti
Vivo in un mondo estremamente sgradevole e la mia opera vuole essere una controffensiva . Le parole di Magritte basterebbero a giustificare la semplice bellezza della sua pittura; immagini piacevoli, limpide, quasi a gara con il kitsch o con le illustrazioni didascaliche di un’enciclopedia, eppure questa non è che la cima dell’iceberg. La bellezza di Magritte si nasconde, non si mostra per intero agli sguardi frettolosi per rivelarsi invece a chi si mette in gioco, accettando che sia proprio l’occhio a guidare le sintassi della mente e del cuore. E l’occhio di questo artista, oltre alla bellezza esteriore, riesce a vedere quella che muove le cose, le fa incontrare, scontrare, apparire e poi scivolare verso altri luoghi ed altri incontri. Un occhio che è molto più di un occhio: si chiude sulla la scorza del mondo per aprirsi su una nuova scena: vedere l’invisibile! Guardare ogni cosa e scoprire il mistero che racchiude. Un privilegio concesso a pochi, ma per Magritte questa possibilità remota diventa un naturale fenomeno percettivo: il suo modo si vedere, di sentire, di esprimersi. Ogni suo quadro racchiude la pagina di un personale diario visionario. Non sono fantasticherie di un altro mondo. Cose, scene o persone appartengono alla quotidianità, ma tutto sembra assoggettato a regole nuove che intessono legami tra realtà altrimenti inconciliabili. Una pittura quindi di mistero, angoscia, attesa, ma anche di promesse e sorprese. Un lampione e una luce d’interno segnano brevi squarci nell’oscurità che avvolge una casa. Il nostro occhio è invitato ad indagare. Tutto tace, non una figura, non un movimento, eppure la stasi sembra pronta a ribaltarsi come una molla caricata. Un guizzo d’occhio; un guizzo di mente e d’un tratto ci si accorge che su questo notturno carico di mistero si staglia un cielo terso di pieno giorno. È L’impero delle luci, il quadro che detta il titolo alla mostra, e presta da subito una chiave d’accesso alle apparizioni scostanti dell’opera magrittiana. Se è vero che quelle luci artificiali non illuminano niente di rilevante basta avere uno sguardo più largo per vedere la vera protagonista della scena: la luce che in quel cielo fa da sfondo alla stessa oscurità che sembra accogliere. Il mistero sta sotto i nostri occhi, così come la risposta che lo scioglie; basta guardare bene, basta vedere… oltre ciò che si vede. Così, su una notte stellata, la silouette di un uccello in volo si riempie dello stesso cielo diurno, ma quel ritaglio di cielo, mentre vola sopra ad un nido, ci mostra il domani, quasi a disegnare l’attesa e la speranza che vegliano su quella culla intessuta di paglia, di vita e di promesse. E ancora lo stesso cielo fa da sfondo all’incontro tra un enorme bicchiere ed una nuvola; e il nostro sguardo, come quello dell’artista è portato a vedere oltre.Un cielo da bere che si riversa negli occhi per arrivare ben più a fondo. E non basta il sogno surrealista a sciogliere questi inconsueti legami. Qui i meccanismi onirici si intessono in una trama di coscienza sempre controllata dall’artista, che poco ha a che vedere con gli automatismi psichici del Surrealismo, cui pure Magritte appartiene in veste di canonico, . La fata ignorante regge una candela la cui fiamma è nera; tutta la luce e la bellezza sono dall’altro lato, in quello che la fiamma metterebbe in ombra. Le leggi fisiche si ribaltano secondo criteri spaesanti, ma non per questo casuali; le immagini di Magritte sembrano mirare sempre allo svelamento di una verità nascosta. Una verità che ci rendere liberi di vedere, di creare e inventare, e soprattutto di credere: credere che la nostra felicità dipenda anch’essa da un enigma associato all’uomo e che il nostro dovere sia solo quello di sforzarci di conoscerlo (René Magritte). E lo sforzo a questo punto sembra solo quello di afferrare la realtà per un lembo, alzarne il velo e scoprirvi che cielo che vi è nascosto dietro. Daniele Fraccaro René Magritte – L’impero delle luci, Villa Olmo, Como. Fino al 16/7/2006. (Cat. Ludion) I voli del Giambologna Per la prima volta una rassegna sul più grande scultore del Cinquecento dopo Michelangelo. Marmi e bronzi dinamizzano un mondo di eroi a Firenze. In Piazza della Signoria, sotto la Loggia dei Lanzi, il gruppo marmoreo del Ratto delle Sabine vibra furore e passione accanto alla compostezza tesa del Perseo del Cellini. È una scultura tutta torsioni, accensioni del marmo che sembra corpo vivo, voglia di conquistarsi lo spazio. Da secoli i turisti la ammirano, come da secoli il bronzo con il Mercurio alato che fende volando gli spazi è nella fantasia collettiva. Ma di lui, Jean de Boulogne, fiammingo di nascita, italiano di adozione, europeo per vocazione, un’indagine seria difficilmente è stata approntata. Tranne quella che oggi è in mostra al Bargello di Firenze. Certo, per qualunque artista che vivesse all’epoca di Michelangelo, il confronto col Gigante era inevitabile, e rischiosissimo. Ne sapeva qualcosa uno che non è un minore, Jacopo Sansovino, emigrato alla fine a Venezia. Giambologna ama il rischio. Adotta il linguaggio manieristico, fatto di verticalismi, attorcigliamenti, esplosioni sentimentali eccessive, lo avvolge in marmi e bronzi calibrando fortemente forme e spazi, così da unire monumentalità e leggerezza. Cosa che a Michelangelo non sempre riusciva. Di qui il fascino dei suoi monumenti equestri, degli dei e degli eroi per fontane – come quella, celebre, del Nettuno, a Bologna – piazze e logge: un mondo dove il corpo umano, maschile e femminile, idealizzando all’estremo le forme classiche, domina con uno slancio acuto lo spazio circostante, con le sue movenze serpentinate. Fra i tanti, un solo esempio, il più celebre e popolare, il Mercurio volante, riproposto dall’artista in ben cinque versioni, in bronzo dorato, di dimensioni diverse. La figura è tutta un impeto nervoso verso l’alto. Un moto che dal tallone appena appoggiato zigzaga su per il corpo teso sino a brillare fulmineo sull’indice della destra: essa divide in due parti distinte lo spazio circostante: si posa appena sulla terra e già rivola. Una figura architettonica, un guizzo che scinde ciò che la circonda e, grazie alla doratura, assomiglia realmente al lampo. È questo senso dell’uomo dominatore con un moto inarrestabile del tempo e dello spazio, con una plasticità che assorbe e riflette la luce, la vena originale di Giambologna. Se Michelangelo conquista l’universo con una umanità di giganti, Giambologna dona ad un mondo di eroi il fascino della leggerezza, della luce che scorre sulle forme con un ritmo inarrestabile. Ed anche nelle sue opere più posate, come i monumenti equestri, rimane un brivido che conferisce elettricità alle figure più pensate. E che farà scuola per secoli. Anche per questo, Giambologna è un grande. Mario Dal Bello Giambologna, gli dei, gli eroi. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. Fino al 15/6 (catalogo Giunti).