Ciao Lucio
Un infarto e via: la vita a volte può finire anche così. E non guarda in faccia nessuno, lei: né i pedigree, né il talento, né qualunque altra umana variabile. Nel caso del Lucio nazionale l’effetto è ancor più devastante perché del tutto inattesa. Perché soltanto qualche giorno fa l’avevamo visto tra i protagonisti (tra i più dimessi e dignitosi, in verità) dell’ultimo serraglio sanremese. E perché lui era uno che sapeva godersela, la vita, senza lasciarsi sopraffare dai diktat dei mercati e da un ambiente quasi sempre più stressante del lecito.
Mentre scrivo il web è intasato di prolusioni, più o meno affettuose e legittime, di colleghi e di gente comune, a sottoscrivere l’indubbio peso che il nostro ha lasciato sulla cultura musicale italiana. In quasi cinquant’anni di onorata carriera, Dalla ci ha regalato gioielli indiscutibili (non val manco la pena elencarli, tanto più che ognuno ha i suoi preferiti): su molti di questi c’è cresciuta un’intera generazione; e quelle seguenti hanno imparato a cantarli e ad appropriarsene: peculiarità questa, tipica di tutti i classici.
Proprio così, ormai possiamo ben dirlo: Lucio Dalla da Bologna è stato e resterà un classico, almeno della nostra canzone d’autore. Un maestro, un caposcuola, un fuoriclasse. Uno di quei pochi capaci di coniugare grazia melodica e profondità di pensiero, eleganza formale e personalità di scrittura: ma sempre con la perfetta coscienza che il primo dovere d’una buona canzone è di veicolare emozioni, e non concetti.
Lucio ha attraversato infinite stagioni del nostro made in Italy canzonettaro, e forse l’ha lasciato giusto in tempo per non finire, come tanti altri, a scimmiottare sé stesso. La prossima settimana avrebbe compiuto 69 anni, e sale dal cuore un bel po’ di tenerezza nel ricordare che il suo addio alle scene italiche sia avvenuto a due passi dallo stesso palco che lo vide debuttare nel ’66, e poi svoltare cinque anni dopo con la celeberrima 4 Marzo ’43; un addio senza strepiti, quasi dimesso (per accompagnare una giovane promessa) com’era del resto sempre stato il suo modo di rapportarsi al pubblico: persino in quegli anni, sul finire dei Settanta, in cui era indiscutibilmente il più forte di tutti.
Un piccolo uomo e un grande artista, capace di sberleffi e compassione, ma sempre con quel tono (dis)incantato e sornione, tipico della sua gente. Un artista vero, così credo vada ricordato. E come tale, perennemente sospeso su un’altalena di follia e lucidità, di impeti estrosi e inquietudini umorali; colto e ruspante insieme, scostante eppure sempre capace di guizzi e di ritorni sorprendenti. Un artista vero, e proprio per questo già ci manca così tanto, anche se sappiamo che non ci lascerà mai davvero: perché, in quel miracoloso modo tipico dei grandi autori, fa – e sarà sempre – parte di noi.