Ciao campione!
«Mi piacerebbe mi ricordassero come uno che ha preso un paio di tazze d’amore e un cucchiaio di pazienza, anche un cucchiaino da tè di generosità, una pinta di gentilezza, aggiunse un quarto di sorriso, un pizzico di preoccupazione, poi mescolò bene la sua volontà con la sua felicità: aveva una fede incrollabile che aggiunse bene a tutto il resto, poi estese la sua ricetta nell’arco di una vita intera e la servì ad ogni persona meritevole che incontrò». Rispose così, intervistato da sir David Frost nel 1972, Muhammad Ali in una celebre intervista.
Forse oggi lo gradirebbe, mentre il mondo ne celebra il ricordo in seguito alla sua dipartita, avvenuta «in seguito a non specificate cause naturali» nella notte tra il 3 e il 4 giugno all’età di 74 anni in ospedale a Phoenix, Arizona, dove era stato ricoverato il giorno precedente “per precauzione”, data l'età e il morbo di Parkinson che lo fiaccava da trent'anni. Così come gradirebbe essere ricordato non con il nome di Cassius Marcellus Clay Junior, un nome da schiavo che non aveva scelto, ripeteva, e non voleva. «Io sono Muhammad Ali, un nome libero. Vuol dire amato da Dio. Voglio che la gente lo usi quando mi parla e parla di me», precisava dopo essersi convertito all’Islam, nel 1964.
Continuano ancora, in tutto il mondo, a rendere omaggio al suo mito in tantissimi, soprattutto sui social network: «Muhammad Ali ha scosso il mondo. E per questo il mondo adesso è migliore. Siamo tutti migliori: era il più grande, punto e basta», ha commentato il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. Perché Ali non è stato e non sarà mai solo l’ex campione del mondo dei pesi massimi ed oro olimpico alle Olimpiadi di Roma '60, bensì senza dubbio una delle personalità più rilevanti, influenti e riconoscibili del ventesimo secolo, sempre irrequieto nelle sue posizioni, sempre in continuo cambiamento, talvolta contraddittorio o incomprensibile.
Nato nel 1942 a Louisville, Kentucky, da famiglia afroamericana, cambiò religione per tre volte: prima cristiano, poi aderente alla setta estremista “Nazione dell’Islam” che considerava i bianchi «diavoli», quindi, come il leader Malcolm X, si unì all’Islam sunnita ortodosso, praticando la filosofia Sufi. Cambiò anche moglie per quattro volte, avendo nove figli, così come cambiò idea politica, come fu palese quando, dopo la vittoria alle Olimpiadi di Roma 1960, rispose a un giornalista sovietico circa il razzismo contro i neri: «Nel mio Paese stiamo risolvendo la questione, siamo il miglior Paese del mondo, incluso il suo, ci sono problemi ma nessuno lotta con i coccodrilli o vive in capanne di fango». Salvo poi, sei anni dopo, opporsi alla guerra in Vietnam, sentenziando: «Non ho mai litigato con questi Vietcong. I veri nemici della mia gente sono qui». Incriminato e squalificato, finché la Corte Suprema non riconobbe la sua obiezione di coscienza non poté combattere.
Simbolo del movimento di liberazione dei neri negli Stati Uniti durante gli anni '60, anche per aver sfidato il governo americano, già a 30 anni sul ring era un’assoluta celebrità fatta di determinazione, narcisismo, coraggio, vanagloria, capace di cambiare l’opinione pubblica americana. Peccava spesso di spocchia, si vantava di «svolazzare come una farfalla ma pungere come un’ape» sul ring e intanto era riuscito a cambiare la boxe: non schivava i colpi ma muoveva la testa indietro a eluderli, irridendo, tenendo anche la guardia bassa contro ogni regola, quasi ad invitare i pugni. E se per un pugile essere alle corde era segno di cedimento Ali era capace di appoggiarsi al limite del ring e assorbire i colpi dell’avversario, come quando nel 1974, in Zaire, in un epico match contro Foreman, per otto round incassò colpi clamorosi, prima di atterrare l’avversario.
«La gente dice che parlo lentamente oggi. Sai che sorpresa. Mi sono beccato 29.000 pugni in faccia. Ma ho guadagnato 57 milioni di dollari e ne ho risparmiati la metà. Di pugni forti ne ho presi pochi. Sai quante persone di colore vengono uccise al giorno d'oggi da colpi di pistola o da coltellate senza incassare una lira. Magari parlo lentamente, ma la mia testa è a posto», disse nel 1984 a Seattle.
Tra le ultime uscite, l’emozionante accensione della fiaccola olimpica in occasione dei giochi di Atlanta ’96 e la sortita contro il proclama di Donald Trump, attuale candidato repubblicano alla Casa Bianca, sul divieto di ingresso dei musulmani in America, che lo avrebbe riguardato di persona. Ma anche il grande Alì è sceso definitivamente dal ring perché, per dirla con un altro dibattuto e celebre boxeur, Mike Tyson, «Dio si è venuto a prendere il suo campione. Lunga vita al più grande».