Ci vuole una vita per imparare a morire (Seneca)
Prima della nascita di Angelo, i medici gli avevano diagnosticato una malformazione dell’apparato respiratorio. I genitori decisero di farlo nascere, perché per loro la fiducia verso la vita era più forte della paura di soffrire. Potevano contare, inoltre, su una bellissima famiglia d’origine e su tanti amici che da tempo condividevano con loro l’esperienza della fede in un Dio che è padre in qualunque circostanza.
La storia di Angelo è una delle tante che le famiglie si trovano a dover affrontare oggi, sotto forme diverse, ma con simili sentimenti ed emozioni. I pochi mesi di vita di Angelo sono stati intensi, grazie all’affetto dei fratellini maggiori e della famiglia. Sebbene non fosse ancora in grado di parlare, la sua partecipazione attiva, fatta di sguardi e sorrisi, lasciava intravedere la sua piena capacità di trasmettere pace e serenità a tutti. Per questo, sarà facile immaginare quanto possa essere stato difficile il momento dell’addio, per i tutti i suoi cari e per quanti l’avevano coccolato anche se per poco tempo.
La casa dopo la sua morte appariva vuota, i suoni scomparsi e i giocattoli, così come la culla e vestiti, non servivano più a nulla. In certi momenti la perdita sembra una crudeltà senza giustificazione. Anche le domande dei piccoli non hanno trovato risposte. Ma, con il passare del tempo, una certezza è affiorata alla mente dei coniugi: «Questi brevi mesi di vita non sono stati vissuti invano da noi e da Angelo. Certamente, questo rapporto costruito ha arricchito la nostra famiglia. Abbiamo avuto la sensazione che la nostra relazione matrimoniale avesse fatto un passo avanti. La qualità del nostro amore era aumentata e le piccole liti erano scomparse. Era come se l’aver condiviso queste forti emozioni, ci avesse unito ancor di più, dando un senso più profondo alla nostra vita. Anche per i nostri bambini non è stato facile, anche perché abbiamo pensato di dire loro la verità spiegando che Angelo era andato in cielo e che non sarebbe più ritornato. Uno dei nostri figli non è riuscito a dormire per alcune notti. Aveva sviluppato rancore e paura per il duro distacco. Ma finalmente un giorno ci ha confidato di aver chiesto al fratellino giunto in paradiso di proteggerlo, mostrandosi orgoglioso per la sua protezione e rincuorato dall'idea di poterlo rivedere un giorno».
Questa e altre storie sono state il momento centrale del convegno “Umanizzare la morte per vivere la vita”, svoltosi nei giorni scorsi all’Ospedale regionale Miulli di Acquaviva, grazie al lavoro dei medici e alla collaborazione di Medicina Dialogo e Comunione. La morte, così come la sofferenza, possono trovare senso solo nella vita. Una vita vissuta secondo i valori più profondi vale sempre la pena di essere vissuta, e non importa quanto duri, importa viverla con qualità.
Da qui l'appello a riconciliare le diverse tesi che hanno diviso i medici sulla questione dell'eutanasia, proponendo in sostituzione di questa il concetto di “eubiosia”, cioè una qualità di cure e assistenza medica e infermieristica che conferiscono dignità alla vita e accompagnano a una morte dolce. Chi muore ha bisogno di credere più che mai nella vita, anche in quella eterna. È quindi necessario accompagnare non alla morte ma alla vita, a quella che verrà, sacralizzando i trenta secondi di chi muore. E per umanizzare la morte dobbiamo imparare a umanizzare la vita, ricordando che la salute non è assenza di malattia. Ciò che conta è il valore che diamo ad essa.
Spesso, infatti, non è la morte a fare paura, ma il timore delle sofferenze, della perdita della dignità, di diventare come vegetali attaccati a un terminale. A questo proposito, è stato rivalutato il ruolo del medico quale miglior farmaco. È l'equipe che può fare la differenza, attraverso l'ascolto profondo della persona malata, privo di giudizi, di ansie e pensieri. Rivalutando il ruolo dei “neuroni specchio” si può arrivare a comprendere il malato giungendo a un rapporto di reciprocità che può condurre alla sua guarigione o al cambiamento del significato del dolore, trasformando la morte in vita.
Significativo anche l’intervento di una dirigente medico della rianimazione, che ha posto l’accento sul disagio dei medici che ogni giorno si trovano a decidere della sorte di persone che non lasciano un testamento biologico e nell’indecisione di familiari. Ciò che conta è non anestetizzarsi, abituandosi alla morte come a un evento ineluttabile, valorizzando, al contrario, gli ultimi momenti del paziente, che pur apparentemente incosciente è meritevole di rispetto e di amore. Per i pazienti che non hanno la possibilità di ritornare a casa al momento finale della loro vita, è sorta l'idea di dedicare appositi spazi per l'accompagnamento alla morte e per l'elaborazione del lutto accanto al proprio parente morente. È importante familiarizzare con la morte, talvolta ricoperta dal falso rispetto umano, perché in fondo, come ha detto qualcuno, «ogni vita è intrisa di morte e ogni morte genera vita».