Ci sono ancora missionari
Sul web sono apparse improvvisamente centinaia di foto del nostro ambasciatore in Repubblica Democratica del Congo che lo ritraggono non solo in selfie con piccoli e grandi amici congolesi, ma anche e soprattutto attorniato dai suoi simili, cioè da missionari di ogni tipo: volontari di Ong, suore e frati, soldati e giornalisti, sanitari e ingegneri. Serve il versamento di sangue da parte di un servitore – dello Stato, di Dio, del prossimo, del bene comune… − per accorgersi dell’esistenza di un esercito sconfinato di uomini e donne che in un certo momento della loro vita di sono sentiti chiamati a una missione particolare, a un compito per il quale vale la pena di mettere in gioco persino la propria esistenza?
Spesso in ambienti ecclesiali ci si lamenta della drastica diminuzione di missionari cattolici, categoria fino a qualche decennio fa all’apice delle gerarchie degli evangelizzatori e delle donazioni. Comboniani, saveriani, della Consolata, del Pime, delle Missioni africane… Non poco gente guarda a quest’epoca eroica in cui giovani uomini e giovani donne lasciavano ogni altra prospettiva di vita per trasferirsi a vivere in mezzo a popolazioni che ancora non avevano cognizione del Cristo e del suo amore universale.
Oggi, anche se non sono scomparsi, questo tipo di missionari è drasticamente diminuito e, in ogni caso, essi hanno profondamente cambiato il loro modo di essere in missione, meno confessionali e più solidaristici, anche perché ormai sono poche le popolazioni che vivono nell’isolamento, ignare del resto del mondo. Mentre i poveri sono sempre legioni, anche nuovi poveri, magari quelli determinati dal terrorismo o dai cambiamenti climatici.
Ma i missionari non sono diminuiti, Anzi. Certo, la missione ha pur essa mutato i suoi contorni e i suoi confini, laicizzandosi e perdendo quasi completamente il carattere di proselitismo, salvo i non pochi seguaci di certe sette e i tanti predicatori islamici. Sono invece aumentati a dismisura i volontari e gli impiegati delle Ong e dei governi, o ancora delle organizzazioni internazionali, che spendono anni o decenni al servizio dei più poveri e bisognosi.
Poco più di un anno fa, in Sudan del Sud, avevo incontrato una ventina di volontari-missionari nel corso di un’inchiesta giornalistica. Si erano riuniti un paio di ambasciatori, un console, quattro o cinque medici, due o tre ingegneri, un paio di agronomi, tre frati minori frati minori, un prete fidei donum, alcuni addetti del Programma alimentare mondiale… Eravamo in un compound protetto, ma ciascuno di loro nella giornata svolgeva il suo lavoro, pardon, la sua missione, con dedizione e altruismo, senza misurare le forze, spesso a scapito della propria sicurezza, animato, come mi diceva un medico agnostico, «dal fuoco interiore che brucia il desiderio di comodità e ti spinge ad occuparti dei suoi simili».
Due di quei “missionari laici” moriranno tre mesi più tardi in un incidente aereo in un buco del buco del mondo. Come Luca Attanasio hanno così dato fisicamente la loro vita per uno scopo nobile, nobilissimo: il servizio. Al punto che viene da chiedersi se questo scorcio di storia non ci faccia assistere a un nuovo fiorire di vocazioni, certo diversissime da prima, meno religiose ma non meno altruiste, meno durature forse, ma non meno intense. In epoca di Covid-19, il bene è ancora contagioso. Luca Attanasio, ma anche Vittorio Iacovacci, il carabiniere di scorta, e l’autista congolese, Mustapha Milambo, tengono alto l’onore dei missionari. Dei nuovi missionari.