Chiusi gli ospedali psichiatrici giudiziari. Ora tocca ai Comuni
Dal primo aprile la chiusura degli Opg (Ospedali psichiatrici giudiziari) è un fatto: non si torna più indietro. Questa data dovrà essere ricordata come quella del 13 maggio 1978 che introdusse la legge n. 180, meglio nota come “Legge Basaglia” che segnò la chiusura dei manicomi.
Anche per questo evento si possono ripetere le parole del celebre psichiatra Basaglia: «Non è importante tanto il fatto che in futuro ci siano o meno manicomi e cliniche chiuse, è importante che noi adesso abbiamo provato che si può fare diversamente, ora sappiamo che c'è un altro modo di affrontare la questione; anche senza la costrizione».
Sono dovuti passare ben 37 anni per capire che c’è un altro modo di affrontare la questione anche senza costrizione e per arrivare alla chiusura di quei “manicomi criminali” davanti ai quali la legge 180 si era dovuta fermare. Già, perché le strutture oggi chiuse si chiamavano proprio così. Cambiarono nome con l’entrata in vigore dell’ordinamento penitenziario nel 1975. Avevano cambiato nome trasformandosi in “ospedali psichiatrici” ma i cambiamenti di forma e di sostanza furono lenti e ambigui. Sono passati quasi quattro decenni per poterci liberare di quello che l’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha definito «estremo orrore, inconcepibile in qualsiasi Paese civile».
Quante sono le persone ospitate nei sei ospedali psichiatrici giudiziari? Alla data del 31 marzo 2015 risultavano essere 1.009. Di questi 133 stranieri e 73 donne.
Con l’attuazione della legge (la n. 81 del 30 maggio 2014), che chiude gli OPG, entrano in funzione le REMS-D (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive) da qualcuno definite “piccoli OPG”. Ma attenzione: lo spirito e la lettera della legge dice altro. Ancora non è intervenuta la modifica del codice penale, in forza della quale, in presenza di una persona malata che ha commesso un reato e che risulta socialmente pericolosa, si potrà ancora prevedere una forma di contenimento restrittivo. Ma a questa restrizione si potrà fare ricorso, secondo il primo articolo della legge «quando sono acquisiti elementi dai quali risulta che ogni misura diversa non è idonea ad assicurare cure adeguate e a fare fronte alla sua pericolosità sociale, il cui accertamento è effettuato sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni di cui all'articolo 13, secondo comma, numero 4, del codice penale».(Cioè le condizioni psicologiche, sociali, economiche e familiari del reo da valutare al fine di stabilire l’entità della pena).
Questo significa qualcosa di molto importante. La “pericolosità sociale”, che è alla base della applicazione da parte del giudice della misura di sicurezza, non può essere dichiarata o confermata solo perché la persona è emarginata, priva di sostegni economici o per sola mancanza di programmi terapeutici individuali.
Si deve, infatti, sapere che un rilevante numero di persone chiuse negli OPG vi rimaneva perché, avendo commesso un reato non necessariamente grave, in giudizio era stato prosciolto in quanto incapace di intendere e di volere. Essendo pericoloso socialmente, gli era stata applicata una misura di sicurezza in OPG affinché fosse curato e nello stesso tempo fosse messo in condizione di non nuocere.
Ma se dopo un periodo di cura fosse cessata la pericolosità sociale e non vi fosse nessuno disposto a farsi carico di questa persona, perché povera e senza riferimenti sociali, economici e familiari, capitava molto spesso che la misura di sicurezza fosse prorogata. E di proroga in proroga si poteva rimanere chiusi in OPG molti anni, con la conseguenza che spesso queste persone diventavano malati sempre più gravi.
Il merito di questa legge è sostanzialmente questo: aver riportato la responsabilità di cura e trattamento nelle sedi e nei luoghi giusti: Regioni, Asl, Comuni. Sono questi enti territoriali ai quali tocca la presa in carico socio-sanitaria e riabilitativa in quanto la malattia non fa perdere il diritto di cittadinanza che radica l’esigibilità del diritto di assistenza e cura nel territorio da cui si proviene.
(Continua)